L’assassino di Pierina Paganelli, la 78enne uccisa con ventinove coltellate il 3 ottobre di quasi un anno fa, potrebbe aver spostato il corpo. Quel che è certo, invece, è che ha simulato una violenza sessuale. L’ex infermiera in pensione è stata infatti ritrovata cadavere nel vano che separa la zona dei garage da quella degli ascensori e delle scale nel condominio di via del Ciclamino a Rimini. Ed è stata ritrovata con la gonna e gli indumenti intimi tagliati. L’ipotesi è che il killer abbia compiuto un’attività di riposizionamento non solo della salma. Ma anche che abbia rimesso nella borsa gli oggetti caduti a terra durante la brutale aggressione. Nel dettaglio, il tablet, gli occhiali e la custodia. Oltre a sezionare, come detto, gli abiti nella parte inferiore. Ma perché perdere tempo nel simulare una violenza carnale, riordinare la scena del crimine e rischiare di essere beccato sul fatto? Nella cruda realtà di un omicidio, ogni minuto che passa conta e può rivelarsi letale per chi uccide. Eppure, ci sono assassini che, dopo aver commesso un crimine, sembrano dedicare tempo e attenzione non solo all'eliminazione delle prove, ma a una vera e propria messa in scena. Ogni gesto compiuto sul luogo del delitto dopo l'atto sanguinario racconta una storia, svela un'intenzione, e ci offre uno scorcio sulla mente di chi è capace di distruggere la vita di un altro essere umano.
Perché, dunque, l’assassino di Pierina Paganelli ha perso tempo a ricomporre la scena del crimine? Perché ha rimesso nella borsa della vittima oggetti come il cellulare, il tablet e la custodia degli occhiali, e poi ne ha strappato la gonna per simulare una violenza sessuale aumentando la permanenza nel garage con il rischio di essere scoperto? Piccola premessa. Un assassino che altera la scena del crimine è un regista, un manipolatore che cerca di avere il controllo totale su come sarà percepito il suo crimine. Riposizionare gli oggetti nella borsa di Pierina è stato un atto che voleva andare oltre la semplice eliminazione di tracce. È stato un tentativo di riscrivere la narrativa, di creare una versione dei fatti che potesse confondere e depistare le indagini. Questo comportamento riflette un desiderio profondo di potere: l'assassino non si è accontentato di aver tolto la vita alla Paganelli, ma voleva anche determinare come sarebbe stato interpretato il delitto quel momento. Anche per farla franca. Il gesto di strappare la gonna della 78enne per simulare una violenza sessuale ha introdotto un altro livello di complessità. Anche in tal senso non è un atto casuale, ma un deliberato tentativo di alterare il contesto del crimine. Nella mente dell'assassino, far sembrare che vi sia stato un tentativo di violenza sessuale può servire a sviare le indagini, indirizzandole verso un crimine passionale o motivato sessualmente, distogliendo così l'attenzione dal vero movente. Tuttavia, c'è un aspetto inquietante in questa simulazione: l'assassino - come sempre accade in questi casi - ha cercato di inscenare qualcosa che non conosceva veramente. La violenza sessuale è per lui un concetto astratto, un atto che non comprende appieno ma che sa essere un potente depistaggio. Questo lo ha spinto a riposizionare gli oggetti nella borsa, in una sorta di rituale meccanico, come se imitasse un copione imparato a memoria senza afferrarne il significato più profondo. Ricomporre la scena del crimine, rimettere gli oggetti al loro posto, simulare un'aggressione sessuale, non sono semplici atti di insabbiamento, ma espressioni di una mente che cerca di comunicare qualcosa.
Questi gesti possono riflettere un senso di colpa mascherato da una meticolosa ossessione per i dettagli. L'assassino della Paganelli, quindi, potrebbe essere stato dilaniato tra il bisogno di cancellare il crimine e il desiderio di lasciare una traccia del proprio potere, del proprio controllo. Eppure, questa necessità di creare una scena credibile mostra le sue falle: il killer ha tentato di ricostruire una realtà che non comprende davvero, facendo emergere una discrepanza tra il suo intento e il risultato finale. Dedicare tempo a queste manipolazioni è stato poi un rischio per l’aggressore di Pierina, che poteva essere scoperto da un momento all'altro. Nonostante ciò, ha scelto di farlo, perché la scena del crimine doveva raccontare una storia precisa. Quella da lui inscenata. Non solo per depistare. Una simile necessità di controllare la narrativa evidenzia un profondo disprezzo per la vittima, denigrata fino all’ultimo respiro ed oltre, ma anche una sottile, perversa forma di narcisismo. L'assassino, nel tentativo di inscenare una realtà che non gli apparteneva, ha lasciato indizi della sua ignoranza, tracce di una messinscena che non ha retto sin da subito all'esame attento degli investigatori. Pierina non è stata uccisa da qualcuno che voleva violentarla. Ma da chi nutriva un odio profondo non arginato e non arginabile nei suoi riguardi. Chi è davvero il killer della Paganelli? Siamo sicuri che possa aver fatto tutto da solo inclusa la ricomposizione della scena del crimine? Il killer porta il nome ed il cognome di Louis Dassilva? Al Dna l’ardua sentenza. Ma anche all’udienza del 9 settembre. I colpi di scena potrebbero essere dietro l’angolo.