Facciamo finta. Facciamo finta che un giorno spunti fuori una verità diversa. Che nel delitto di Garlasco, diciotto anni dopo quel mattino d’agosto in cui Chiara Poggi fu trovata senza vita sulle scale della villetta di via Pascoli, venga fuori un altro nome. Un altro Dna. Un altro dettaglio che era sfuggito, che era stato ignorato, o che qualcuno aveva nascosto. Una storia alternativa, che non suona più come una teoria da bar o un tentativo disperato di riaprire il caso, ma come una nuova verità. E facciamo finta che quella condanna a 16 anni per Alberto Stasi, arrivata dopo anni di assoluzioni, ribaltamenti, ricorsi e revisioni, cominci a sgretolarsi sotto il peso di una revisione vera. Pesante. Inevitabile. Come succede nei film americani quando, a sorpresa, un laboratorio scopre che il Dna trovato sotto le unghie della vittima non è quello dell’imputato. E allora cambia tutto. Le narrazioni, le convinzioni, persino le certezze costruite con pazienza e sangue freddo. Lui, il colpevole perfetto. Il ragazzo con la polo stirata e il computer acceso. Il laureando bocconiano con l’andatura composta e la voce bassa. Lui, che sembrava quasi troppo freddo per essere innocente e troppo borghese per essere davvero colpevole. Lui, che mentre tutti gridavano giustizia, si trovava da solo a spiegare come si può camminare su una scena del crimine senza sporcarsi le scarpe. Che si difendeva da un'intera opinione pubblica come se fosse una seconda accusa, ancor più feroce della prima. Potrebbe non essere stato l'assassino.


A quel punto, lo Stato dovrebbe pagare. Non simbolicamente, non con una nota di rammarico letta tra i corridoi del Ministero o con una dichiarazione su un sito istituzionale. Pagare davvero, in contanti, con bonifici e interessi. Nove anni e mezzo di carcere. Circa 3.450 giorni vissuti dentro una cella, mentre fuori si discuteva del suo modo di piangere, delle email inviate, del tragitto in bicicletta, dei video pornografici sul suo hard disk, come se ogni dettaglio potesse diventare prova. Il prezzo? Circa 600 euro al giorno, secondo i parametri italiani sul risarcimento per errore giudiziario. Ma si può salire. Nei casi mediatici, in quelli in cui la gogna non finisce con la scarcerazione, ma ti accompagna per anni nei colloqui di lavoro, nelle strette di mano fredde, nelle uscite al supermercato, la cifra può arrivare anche a 1.000 euro al giorno. Chiedere a Giuseppe Gulotta, che ha passato 22 anni da innocente dietro le sbarre. Chiedere ad Angelo Massaro, che ha ricominciato da zero dopo 21 anni, con la voce rotta e un tempo che nessuno può restituirgli. Il conto finale, in euro, è semplice: tra 2 e 3,5 milioni. Il conto, in vite perse, è un altro film. Nessuna cifra cancella l’etichetta cucita addosso come una seconda pelle: “l’assassino della fidanzata”. Nessuna somma ridà il tempo. Nessun risarcimento cancella le notti in cui il sonno non arriva, i compagni di cella che ti scrutano, le interviste che parlano di te senza conoscerti, le copertine che ti inchiodano a una narrazione. Nessuna cifra risolve la domanda che resta anche da uomo libero: “E se fosse stato davvero innocente?” Per ora è solo un’ipotesi. Una suggestione. Un esercizio narrativo nel regno del condizionale. Ma se, anche solo tra dieci anni, la verità cambiasse? Se qualcuno trovasse il tassello mancante? Se una confessione, un testimone dimenticato o una traccia nuova ribaltasse tutto? Allora lo Stato dovrebbe chiedere scusa. E versare, con interessi e ritardo, il prezzo di ogni singolo giorno. Non solo i soldi. Anche il peso. Anche la vergogna.

