Diciotto anni dopo quel 13 agosto 2007, il delitto di Garlasco è tornato a far discutere. Un caso che sembrava chiuso, con una condanna definitiva, è stato riaperto con nuove indagini e nuovi personaggi coinvolti. Ma “un colpevole per l’omicidio di Chiara Poggi c’è, si chiama Alberto Stasi”, ha scritto Fiorenza Sarzanini su Il Corriere della Sera. Una condanna a 16 anni, arrivata “dopo due precedenti assoluzioni”, su cui la Procura generale “aveva espresso dubbi sul fatto che fosse proprio lui l’assassino”. Secondo Sarzanini, questo basterebbe “per affermare che l’imputato non è stato condannato ‘oltre ogni ragionevole dubbio’, così come impone la legge”, e che, se così non fosse, “è giusto che ogni imputato tenti in ogni modo di dimostrare la propria innocenza”, anche cercando una revisione del processo. La giornalista richiama anche i magistrati, che “qualora emergano indizi tali da cambiare quella verità giudiziaria”, dovrebbero tornare a indagare, sfruttando ogni mezzo disponibile. Esistono però regole da rispettare, a partire dal diritto “a non essere stritolati in un meccanismo infernale che tutto travolge in nome di una verità che dovrebbe invece seguire uno schema rigoroso e un riserbo assoluto".

Quello che sta accadendo a Pavia, scrive Sarzanini, è “uno scempio delle vite di persone innocenti fino a prova contraria, di presunti attori e comprimari collocati nuovamente sulla scena del delitto”. Le indagini, sin dall’inizio, sono state segnate da “ritardi, sbagli, forse anche depistaggi”: tutti inciampi che potrebbero aver pesato “in maniera determinante” sull’esito dell’inchiesta. A distanza di 18 anni, per Sarzanini non si può “esporre all’opinione pubblica persone alimentando sospetti, senza avere elementi probatori”. Eppure, in queste settimane, si è assistito a uno “spettacolo indecoroso” tra avvocati, periti e investigatori, “che veicolano informazioni con il chiaro intento di condizionare gli accertamenti”. Infine, un richiamo diretto alla Procura di Pavia, che dovrebbe fermare “questa sceneggiata”. “Il capo dell’ufficio possiede gli strumenti per farlo. [...] È un atto necessario, per rispetto della vittima e dei suoi familiari. E per dimostrare che davvero si vuole fare chiarezza”.
