Sette slip usati, sparsi per casa. Quattro ordinatamente piegati dentro un sacchetto di plastica appoggiato sul divano, due in bagno, uno sulla scrivania al piano di sopra. Non stiamo parlando di una normale routine domestica, ma della scena del crimine dell’omicidio di Chiara Poggi, a Garlasco. Un dettaglio quasi grottesco, passato sotto traccia. L’ennesimo. Eppure, chi indaga su un omicidio non dovrebbe trascurare niente. Nemmeno la biancheria sporca. La direttrice del settimanale Giallo, Albina Perri, lo dice chiaro: “Quegli slip non sono mai stati sequestrati né analizzati. E quindi non sappiamo se fossero tutti di Chiara. Possiamo solo fare ipotesi”. E se ci fosse stato sopra del Dna maschile o addirittura di un’altra donna? Ipotesi, appunto. Come quella secondo cui Chiara potrebbe averli messi da parte per portarli a lavare. O, al contrario, che gli slip facciano parte di una messa in scena. Ma in mancanza di analisi, siamo nel campo della più totale nebbia fitta.


La gestione delle indagini, del resto, non è nuova a vuoti simili. La stessa Perri ricorda un’altra assurda dimenticanza legata sempre al delitto di Garlasco: “Hanno dovuto riesumare il corpo di Chiara perché si erano scordati di prenderle le impronte digitali”. Una svista da brividi, che porta inevitabilmente a una domanda scomoda: è stata solo superficialità o qualcuno ha manovrato i fili da dietro le quinte fin dall’inizio? Chiara è morta il 13 agosto 2007. Da allora sono passati quasi 18 anni. Alberto Stasi, all’epoca fidanzato della vittima, sta scontando una condanna definitiva a 16 anni. E se fosse innocente? E adesso i dettagli trascurati, come le sette mutande mai analizzate, tornano a galla come alghe in una palude mai bonificata. E non è solo questione di giustizia: è il bisogno, ostinato e insopportabile, di sapere davvero cosa è successo quel giorno in via Pascoli. Perché sono ancora troppe le cose che non sappiamo.

