“Quel lunedì mattina in cui Chiara Poggi è stata uccisa, e proprio nell’ora in cui è morta, cioè intorno alle 9.30, io ero lì. A Garlasco. In una via vicina a casa Poggi”. A parlare è Marco Muschitta, 35 anni, tecnico dell’Asm di Vigevano. Il suo interrogatorio risale al 27 settembre 2007, poco più di un mese dopo l’omicidio. Eppure, nonostante le sue parole, le indagini non hanno preso un'altra direzione. La sua testimonianza è stata archiviata come “inutile”. A riprenderla è il settimanale Giallo, con la direttrice Albina Perri: il verbale potrebbe ribaltare una delle storie giudiziarie più controverse degli ultimi vent’anni. Muschitta, quel giorno, stava lavorando. “Ero da solo, i colleghi erano in ferie. Mi occupavo di una zona che non conoscevo, giravo in furgone con una cartina sulle ginocchia”. Poi il dettaglio che lo avrebbe tormentato per tanto tempo: “Entrando in via Pavia, vicino alla villetta dei Poggi, ho visto una bici nera da donna, senza canna. Andava a zig zag. Non c’era nessuno in giro. Mi ha incuriosito”. In sella c’era una ragazza. “Capelli biondi a caschetto, occhiali da sole a mascherina, scarpe bianche con una stella blu. Sicuramente aveva pantaloni lunghi, perché non le ho visto le gambe nude. Ci siamo guardati. Era una bella ragazza. Mi sono voltato per guardarla ancora e ho notato che teneva il manubrio con entrambe le mani, ma nella destra stringeva anche un piedistallo tipo da camino, grigio canna di fucile, con un pomello in cima, come una pigna. Un oggetto assurdo da portarsi dietro. Ecco perché andava a zig zag”.


Poi la ragazza sparisce. Muschitta prosegue in via Pascoli, ma si accorge che è una strada chiusa. Fa inversione e riprende il suo giro. Il giorno di Ferragosto racconta tutto alla convivente, durante una grigliata. “C’erano i suoi genitori, il fratello. A pranzo ho detto che avevo visto quella ragazza. Si sono spaventati. La mia donna mi ha detto: “Giuro che se vai dai carabinieri ti preparo le valigie”. Ma Marco non ci sta. Non vuole restare in silenzio. E si presenta in caserma. Parla per ore. Dice persino che la ragazza in bici gli ricordava una delle cugine di Chiara Poggi, Stefania Cappa, protagonista insieme alla sorella gemella Paola di un controverso fotomontaggio post-mortem con la vittima. Ma la deposizione in caserma si interrompe per la cena, e al ritorno qualcosa è cambiato. “Non sono sicuro di quello che ho detto. Mi sono inventato tutto. Sono uno stupido. Vi ho fatto solo perdere tempo”, dichiara all’improvviso. Ma è solo una ritirata strategica. Lo conferma l’intercettazione telefonica del giorno successivo, il 28 agosto 2007, in cui Muschitta parla con suo padre, Giampiero: “Papà, mi hanno detto tutti: stai zitto. Anche la mia donna mi ha detto che mi butta fuori di casa se parlo. Ma io non potevo. Non sono un omertoso, me lo hai insegnato tu. Sono andato dai carabinieri e mi sono liberato la coscienza. Ho detto la verità. Poi ho ritrattato, così loro ora mi possono proteggere. Ma le informazioni le hanno. Ora facciano il loro lavoro”. Il collegamento fatto tra la ragazza e le gemelle Cappa scatena una querela per calunnia da parte del padre, Ermanno Cappa. Ma il processo si chiude con l’assoluzione di Muschitta. I giudici credono alla ritrattazione, ma proprio quella – paradossalmente – lo salva. Nessuna condanna, nessun seguito. Eppure, come diceva lui stesso, “la sicurezza, la giustizia, la fanno i cittadini”. Un testimone che si presenta spontaneamente, che racconta particolari coerenti con altre testimonianze (la bici nera, l’orario, la zona) e che si ritira solo per paura, viene archiviato. Nessuna verifica. Nessuna indagine alternativa. Oggi che il caso Garlasco è stato riaperto, la domanda torna: quella ragazza in bici, con in mano un oggetto pesante (ricordiamo che l’arma del delitto non è mai stata trovata, si è sempre ipotizzato un oggetto contundente), che zigzagava verso via Pascoli, chi era?

