Mentre Alberto Stasi ottiene l’ok definitivo della Cassazione alla semi-libertà, l’inchiesta bis sul delitto di Garlasco, aperta per accertare se davvero il responsabile dell’omicidio di Chiara Poggi sia lui, sembra rallentare nuovamente. La speranza di un avanzamento grazie all’incidente probatorio richiesto dalla procura di Pavia si scontra oggi con l’assenza di risultati scientificamente solidi: né le impronte conservate su acetato per 18 anni, né nuove tracce biologiche. E soprattutto, anche l’elemento più discusso, il DNA sotto le unghie della vittima, è tutt’altro che conclusivo. A dirlo, a Ore14, è la criminologa Roberta Bruzzone. L’indagine, che ha come obiettivo quello di fare chiarezza su chi fosse presente nella villetta di via Pascoli la mattina del 13 agosto 2007, si è incentrata su nuovi accertamenti tecnico-scientifici. In particolare, sono stati analizzati i fogli di acetato dove erano state conservate le impronte rilevate sulla scena del crimine, tra cui la famosa “impronta 10” sul portone interno. Ma da questi supporti non sarebbe emerso materiale genetico sufficiente per effettuare confronti utili. Anche sul fronte delle impronte, poche certezze. Gli inquirenti stanno ora valutando l’impronta numero 44, una suola di tipo carrarmato individuata sulle scale che portano alla cantina, vicino al corpo della vittima. Accanto a essa ci sarebbero la “palmare 33”, attribuita ad Andrea Sempio (amico del fratello di Chiara), e la “97F”, una strisciata riconducibile a una mano insanguinata. Però, sia la 33 che la 44 sarebbero prive di tracce di sangue, rendendone difficile la collocazione temporale. Anche qui, mancano elementi concreti che possano portare a una svolta.
L’unico dato attualmente solido secondo la procura di Pavia sarebbe la presenza di DNA maschile sotto le unghie di Chiara Poggi, ritenuto compatibile con il profilo genetico di Andrea Sempio. Ma proprio su questo punto interviene Roberta Bruzzone, sollevando dubbi sulla qualità e l’affidabilità di quel risultato. “La storia riparte da lì”, dichiara la criminologa. “Ma quel profilo, anzi, quei profili, sono parziali e non hanno consistenza. La ripetizione delle analisi ha dato esiti diversi, e non c’è una corrispondenza certa con Sempio”. Bruzzone evidenzia che il DNA individuato è solo una porzione di aplogruppo Y, una parte minima del materiale genetico, e che già in passato, durante il processo d’appello bis, una perizia aveva concluso per l’inutilizzabilità di quel dato a fini identificativi. Secondo lei, siamo davanti a un quesito ancora aperto: “Quel materiale è davvero utilizzabile per identificare una persona, o no?”. E va oltre, sottolineando come l'attendibilità di quel DNA sia scientificamente debole: “Potrebbe anche essere un artefatto del macchinario”, dice. “Se dovesse cadere anche questa ipotesi, cosa resta?", le ha chiesto Milo Infante. "Niente. Assolutamente niente", ha risposto Bruzzone. La stessa criminologa ricorda come le modalità di raccolta delle impronte nel 2007 non rispettassero gli standard attuali: “All’epoca le polveri non erano DNA free, e i pennelli non venivano cambiati a ogni rilevamento”, dettaglio che rende ancora più debole la qualità dei campioni conservati. Ora spetta alla dottoressa Albani, la genetista nominata dal tribunale, fornire una risposta definitiva: il DNA subungueale è scientificamente comparabile secondo gli standard internazionali oppure no?
