“Ho visto il film dell’omicidio. Ma non il volto dell’assassina”. A parlare non è una veggente da tv del pomeriggio. È un’imprenditrice della Lomellina, stimata e riservata, che nel 2007, a pochi giorni dall’omicidio di Chiara Poggi, si era presentata spontaneamente agli investigatori con visioni troppo dettagliate per essere solo “sensazioni”. Non vuole far sapere il suo nome, né cerca notorietà. Ma oggi, mentre si torna a parlare della condanna di Alberto Stasi, fidanzato della vittima, e di quelle strane tracce mai risolte, anche la sua versione torna a galla, più inquietante che mai. “Era una donna. Ne sono certa. Non ho visto il volto, ma so che è stata lei”. La voce è calma, le parole pesano. Secondo il suo racconto, l’assassina sarebbe arrivata in bicicletta, nera, appoggiata al muro della villetta di via Pascoli. Il cancello era aperto. Chiara forse l’ha vista dalla finestra, forse no. La sconosciuta aveva una borsa di plastica pesante, “dentro c’era l’arma del delitto”, e non ha suonato: è entrata. Il corridoio, Chiara di spalle. Il primo colpo è arrivato subito, forse con l’arma ancora nella borsa. Poi altri, con violenza, fino a lasciarla a terra, viva ma agonizzante. La visione, dice la sensitiva, si è interrotta lì. Ma è ripresa poco dopo. L’assassina, con i vestiti intrisi di sangue, stava telefonando. “Chiamava qualcuno per farsi aiutare. Non poteva uscire in quelle condizioni”. E infatti, sempre secondo la visione, qualcuno l’ha aiutata davvero: un uomo, alla guida di una Peugeot 207 grigio-verde metallizzata. Targa parzialmente ricordata. La donna l’ha vista svoltare verso Gropello Cairoli, poi sparire lungo la circonvallazione per Pavia.


L’imprenditrice dice di sapere anche il movente: soldi. “Chiara aveva scoperto qualcosa. Un segreto sporco, legato al denaro. È per questo che è morta”. Chiara Poggi, 26 anni, laureata in Economia e Commercio, è stata trovata uccisa nella sua casa a Garlasco il 13 agosto 2007. Il suo fidanzato, Alberto Stasi, è stato l’unico indagato. È stato anche l’ultimo a vederla viva e il primo a trovarla morta. Dopo un processo lungo otto anni e due assoluzioni, è stato condannato in via definitiva nel 2015 a sedici anni di reclusione. Ma da allora il caso non ha mai davvero smesso di bruciare. C’è un verbale, poi ritrattato, in cui un testimone parla di una ragazza in bici, con i capelli biondi a caschetto e una “asta di metallo” in mano. C’è la storia delle cugine Cappa, le gemelle, legate alla vittima. C’è una bicicletta misteriosa e un alibi claudicante. Ma ci sono anche testimoni mai considerati fino in fondo. Come la sensitiva, ascoltata una volta dai carabinieri e poi lasciata lì, come una comparsa stramba in una fiction troppo lunga. Ora, con la revisione del processo a Stasi che sembra un’ipotesi ancora percorribile, anche i suoi racconti assurdi, forse, ma coerenti, stranamente coerenti, ritornano. “Il vero assassino sarà scoperto, gli investigatori dovrebbero solo interrogare con determinazione una persona…”. Ma chi?

