"Le fiamme che stanno minando la stabilità dell'Occidente sono innescate da scintille che covano sotto le ceneri del secolo scorso”. Parola di Paolo Mieli, saggista e storico, giornalista a “L’Espresso”, poi a “la Repubblica” e a “La Stampa”, di cui è stato anche direttore, autore di Fiamme dal passato: Dalle braci del Novecento alle guerre di oggi pubblicato da Rizzoli. Libro, estremamente interessante, la cui tesi centrale è che le “braci” di eventi drammatici dei nostri giorni - dalla guerra in Ucraina al conflitto a Gaza (e ora in Libano) - non siano altro che il risultato di scintille sopite da decenni. “Fiammelle” che si sono riaccese con il 24 ottobre 2022.
Il nuovo libro di Paolo Mieli
Nella prefazione Mieli spiega che, in realtà, l’invasione russa dell’Ucraina parte da lontano. L’innesco, afferma, “era scattato molti anni prima, quattordici per l’esattezza. Giovanni Catelli – nel libro Invasione. Storia e segreti dell’attacco russo all’Ucraina – data l’inizio del tutto al 2008”. Quello è, secondo l’accurata ricostruzione di Catelli, “il momento in cui la Russia ha deciso di rompere gli indugi e iniziare il recupero dei territori perduti con la dissoluzione dell’Unione Sovietica”. Più precisamente, sottolinea l’ex direttore del Corriere della Sera, “(e ormai su questo sono d’accordo gran parte degli analisti) l’estate del 2008”, con “la guerra con la Georgia per il controllo dell’Ossezia del Sud”. Data in cui la Russia decise di iniziare a riappropriasi dei territori dell’ex impero sovietico.
Il giornalista contesta la narrazione secondo cui Stati Uniti e Gran Bretagna (con l’allora premier Boris Johnson in testa) si opposero a un accordo di pace che Mosca e Kiev stavano per raggiungere nell’aprile del 2022, tre mesi dopo l’inizio dell’invasione russa. “Per quel che fin qui è stato reso noto, sottolinea Mieli, “il trattato non avrebbe potuto esser preso in considerazione da Zelensky perché conteneva una clausola esplicita a norma della quale alla Russia sarebbe stato concesso di aggredire nuovamente e a proprio piacimento l’Ucraina”. Secondo il trattato, spiega, “la Russia doveva far parte di un gruppo di Paesi tenuti a intervenire in difesa dell’Ucraina in caso di aggressione. Con un diritto di veto, però, che Putin avrebbe potuto esercitare – nei confronti degli altri partner – nel caso fosse stato lui stesso a compiere l’impresa. Un’evidente assurdità”. A questo punto, il giornalista-storico si scaglia contro il professor Alessandro Orsini e il generale Roberto Vannacci, accusandoli di aver “continuato ad alimentare la leggenda della pace a portata di mano “sabotata” da Johnson assieme ad altri leader guerrafondai”.
Chi ha ragione Orsini, Mieli e Vannacci?
Accusa piuttosto discutibile, quella che Mieli muove nei confronti Vannacci e Orsini, dato che è vero, sì, che come scrive, la prestigiosa rivista Foreign Affairs sottolinea che “la versione secondo cui l’Occidente avrebbe costretto l’Ucraina a ritirarsi dai colloqui con la Russia è senza fondamento”. Perché Foreign Affairs, nella sua lunga ricostruzione, dice anche altro, ammettendo che “i partner occidentali di Kiev erano riluttanti a lasciarsi coinvolgere in un negoziato con la Russia”, in particolare "in un negoziato che avrebbe creato nuovi impegni per garantire la sicurezza dell’Ucraina”. “La risposta occidentale a questi negoziati – ammette Foreign Affairs – sebbene ben lontana dalla caricatura di Putin, è stata certamente tiepida. Washington e i suoi alleati erano profondamente scettici riguardo alle prospettive del percorso diplomatico che emergeva da Istanbul”.
Non è certo un mistero che Boris Johnson, che in quei giorni si recò proprio a Kiev, disse a Zelensky che ogni sorta di accordo negoziale avrebbe rappresentato una vittoria per Vladimir Putin. A dare “ragione” a Orsini e Vannacci ci sono anche le parole dell'ex primo ministro israeliano Naftali Bennett, il quale ha rivelato che gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno ostacolato un accordo di pace tra Russia e Ucraina, che avrebbe potuto mettere fine al conflitto nel 2022. Questa affermazione trova conferma anche nelle affermazioni dell'ambasciatore ucraino Oleksandr Chalyi, membro della delegazione ai negoziati di Istanbul. Del resto, come ha rivelato il Washington Post, anche la diplomazia statunitense si oppose all’accordo dell’aprile 2022 con Mosca. Versione confermata anche da Victoria Nuland proprio di recente. Sulla vicenda, comunque la si pensi, come sottolinea lo stesso Mieli, "spetterà agli storici dirci se gli iniziali tentativi di mediazione avevano qualche elemento di concretezza” anche se “le posizioni erano molto, molto lontane dalla possibile ratifica di un trattato”. E questo è certamente vero perché semmai si era vicini a una tregua, a un congelamento del conflitto, ma lontani da un possibile “trattato”.
“Solidarietà a Israele per il 7 ottobre durata meno di 24 ore”
Anche il conflitto tra Israele e Hamas viene inquadrato come un prolungamento di antichi dissidi. “La controversia tra arabi e israeliani prima, palestinesi e israeliani poi, data da oltre un secolo” sottolinea. “Si è intensificata dal 1947, quando l’Onu stabilì che sulla terra che separava la Transgiordania dal mare dovessero nascere due Stati, quello di Israele e quello della Palestina. Israele nacque (nel 1948). Mentre la parte destinata ai palestinesi fu occupata dagli Stati arabi confinanti, che se ne servirono come base per ripetute aggressioni contro Israele”. Quanto alla drammatica attualità, di quel che di “raccapricciante è accaduto il 7 ottobre”, sottolinea il giornalista, “ci vorrà tempo prima che se ne possa ricostruire una storia adeguata, corroborata da una esauriente documentazione. Ma, ne siamo sicuri, il tempo verrà. Per il momento ci accontentiamo delle immagini filmate dagli autori della strage. E possiamo iniziare a riflettere su quel che è accaduto dopo”. Ed è proprio sul “dopo” che si concentra Mieli. Sulla reazione dell’Occidente. “La solidarietà internazionale a Israele per quel che aveva subito il 7 ottobre è durata poche ore - osserva -. Meno di ventiquattro”. E cita il filosofo francese Bernard-Henri Lévy, il quale ha notato che il “movimento cosiddetto ‘propal’ (propalestinese) è venuto allo scoperto immediatamente. Manifestandosi nelle università statunitensi e diventando tutt’uno con l’intera comunità studentesca che fino al giorno precedente aveva preso parte a ogni sorta di contestazione antioccidentale. Agevolato da una partecipazione diffusa dei professori”. Il giornalista riflette, storicamente, sull’antisemitismo dell’estrema destra e della sinistra radicale. Prima metà del Novecento, afferma, “gli stendardi dell’odio contro gli ebrei erano, come si è detto, ben saldi nelle mani della destra. Adesso capitava qualcosa di diverso. Per agganciare le ‘minoranze islamiche’, in tutti i Paesi d’Europa l’asta di quelle bandiere è stata impugnata da mani di sinistra. E i gruppi dirigenti della gauche (non solo quella francese) hanno mostrato qualche incertezza nel contrastare il fenomeno del nuovo antisemitismo”. Paolo Mieli conclude la sua riflessione con una nota critica sull'incapacità dell'Occidente di affrontare in modo efficace i conflitti contemporanei. "Le scintille del passato", afferma Mieli, "non si sono mai davvero spente. Esse continuano a riaccendersi, spesso alimentate da nuove tensioni geopolitiche e ideologiche". I conflitti in Ucraina e a Gaza sono esempi emblematici di come questioni irrisolte del Novecento influenzino ancora il presente.