Luciano Scanzi, per tutti sui social “Orso Grigio”, ha salutato il suo pubblico Facebook con un lungo, intenso addio. Un post di oltre 10mila battute (che riportiamo di seguito), che sembra un testamento civile e personale: “Mi fermo. Non so se per un giorno o per tutti, ma mi fermo. Dei social vedo solo l’inutilità. Scrivere non mi piace più abbastanza da superare questa sensazione. Io e quello in cui credo siamo arrivati al capolinea: abbiamo perso entrambi”. La sua pagina, diventata pubblica nel 2018, era un diario pieno di blues, politica, ricordi e passione seguito da oltre 126mila persone. Oggi ne decreta la fine con parole taglienti: “Questa è una Casa di Riposo delle Illusioni Perdute. Il telefonino lo userò solo per chiamare l’idraulico. La musica liquida? Per sciacquarcisi le palle”.

Un addio che sa di resa, ma anche di lucidità: “Per scopare o lottare ci vuole il fisico. Così si smette. Il resto sono scuse”. E sulla natura dei social: “Non c’è un cazzo di vero, nemmeno le buone intenzioni”. Il figlio, il giornalista del Fatto quotidiano Andrea Scanzi, ha commentato in una storia su Instagram: “Spero che ci ripensi perché scrive molto bene, perché vi fa e ci fa compagnia. Però ha scritto cose molto giuste: i social fanno male. Se non ci lavorassi, avrei smesso da tempo”. Luciano chiude così: “Non seguitemi, mi sono perso anch’io. Non andrà bene un cazzo di niente, ma in qualche modo ce la caveremo lo stesso”.

L'addio di Luciano Scanzi su Facebook
"A lasciare ci penso da tempo, ma a questa pagina sono affezionato e ho continuato a provarci. Oggi però mi fermo. Non so se per un giorno o per tutti, ma mi fermo. Dei social ormai vedo solo l’inutilità, in qualche modo la trappola, e scrivere mi è diventato faticoso, non mi piace più abbastanza da farmi superare questa sensazione di inutilità: due indizi che provano quanto sia giusto chiudere questa Casa di Riposo delle Illusioni Perdute. La chiamo così perché questa definizione vi è piaciuta, e perché è proprio quello che è. A convincermi che questa sia la cosa da fare, oltre alla fatica che ho detto c’è anche la coscienza della mia inadeguatezza e c’è il bisogno di stare da solo, ad ascoltare blues: le due cose che mi riescono meglio. E poi io e quello in cui credo siamo arrivati al capolinea; abbiamo perso entrambi, sconfitti dal tempo e da un mondo disfatto, senza più speranza. Troppi motivi per poter stare ancora qua a ribadire l’inutilità di farlo. Io amo le parole, ma le parole non bastano. Possono aiutare a capire, a pensare, ma sono volatili, qualche volta confondono, si dissolvono, prima di venire cancellate in un amen e così bene dalla gomma della memoria che dopo non resta niente. Le parole descrivono idee, speranze, raccontano sogni, ma la loro forza è pari a zero se non vengono seguite da un’azione. Devono accendere una possibilità, creare un’occasione che le cristallizzi in qualcosa di realmente concreto: proprio quello che non potrà mai succedere perché l’immutabilità delle cose è l’obiettivo comune di chi detiene il potere e purtroppo anche di chi a quel potere dovrebbe opporsi. Uno stagno, anche se putrido e puzzolente è sempre più sicuro di un mare in tempesta e siamo tutti troppo ignoranti, spenti, rincoglioniti da social e telefonini, impegnati ognuno a coltivare il proprio orticello di sopravvivenza per aver voglia di scoprire un nuovo orizzonte dopo quella tempesta. Per questo a quelle parole non farà mai seguito un cazzo di niente. Bisognerebbe nascerci con certi istinti. Usare il cervello e creare pensieri propri dovrebbe essere nel nostro DNA, come respirare, e anche il bisogno di giustizia, di equità, di pace e quell’umanità che porta ad amare gli altri dovrebbero far parte del nostro patrimonio genetico, esigenze primarie e vitali come mangiare e bere. E invece. Quello che provo adesso è una sensazione di disfatta mai provata prima, e di tempi bui ne ho conosciuti, un’impotenza totale e definitiva molto più dura da accettare di quell’altra e per la quale non esistono pillole blu. Non cado dal pero e certe cose non le scopro certo adesso, ma l’età toglie le forze e rende più fragili, più vulnerabili. E per fare la rivoluzione, ma anche solo per incazzarsi, ci vuole il fisico. Così si smette: di scopare e di lottare. Punti di rottura, del corpo e dell’anima, già previsti dalla natura e dal tempo in fondo. Un po’ come per le lavatrici, che vengono progettate perché dopo un certo numero di anni si guastino e si debbano buttare anche se i motori girerebbero ancora bene. Quindi, come da progetto, ci si ferma. Però non si smette di amare, quello va oltre la vita stessa, né di coltivare passioni, ma sono amori e passioni intimi e privati, quindi non condivisibili, nemmeno con chi ne fa parte. Così, dopo avere spento la tv, chiudo anche i social, le chat e tutto il resto di quel mondo virtuale del cazzo che abbiamo confuso con quello vero e che ci ha fritto il cervello. Vero è il viso che hai davanti, la mano che stringi, l’abbraccio che dai, il piacere di un bicchiere di vino da condividere, non questo. Vera è la piazza dove scendi a lottare, non questo. Qui non c’è un cazzo di vero, nemmeno le buone intenzioni, tanto poi mancherà la verifica. Quanti di noi oltre a lamentarsi che qualcuno dovrebbe fare qualcosa sarebbero davvero disposti a schiodarsi dal divano per scendere in strada a lottare? Ve lo dico io: nessuno. Eppure “c’è solo la strada” come diceva un Maestro, tutto il resto sono scuse. Già, “c’è solo la strada”. Voglio farmelo tatuare sulla pelle anch’io e portarmelo dietro, oltre che avercelo già stampato nell’anima. Il telefonino lo userò solo come telefono, per l’appunto, per le esigenze primarie tipo chiamare l’idraulico o l’ambulanza, e il pc sarà riservato più che altro alla musica, anche se per quella prevedo finalmente un ritorno all’antico, al gusto vero che si prova appoggiando la puntina sul disco, come in un atto d’amore, come pelle su pelle con la persona che ami. E la musica ‘liquida’, in quanto tale, la lasciamo per sciacquarcisi le palle. E poi i cerchi vanno chiusi. Si finisce sempre dall’inizio. Dice: “Orso, non divagare. Saluta, ringrazia e ciao”. Certo, mi serve solo un po’ di tempo. E poi quello che c’era da dire l’ho già detto e chi si è stancato è già altrove. Il resto è perché non si dica che non sono prolisso. Scrivo su fb da quasi quindici anni. All’inizio era una pagina privata ma ho sempre cercato di darle un senso che non fosse quello delle rimpatriate fra vecchi compagni di scuola o del cercatore seriale di fica. Nel 2018 poi è diventata pubblica col nome che mi si addice di più, e non certo per il colore dei capelli. L’ho fatto sempre onestamente, col massimo rispetto nei confronti di chi sceglieva di dedicare il suo tempo a leggere le mie ‘cazzate’. Qui ho parlato di tutto, pure troppo, dalla politica al Bar di Montione, dal Cinema alla Musica alla Fotografia. Ho parlato d’amore e di rabbia, di odio e speranza, di vita e di morte. Qui è nata e morta la mia attività di “scrittore” con i due libri autoprodotti e l’orgoglio di aver dato insieme a voi un piccolo aiuto al Mayer. Qui ho pubblicato la mia prima canzone a non essere finita nel cestino e ho perfino scherzato di poesia lasciando alfine che odi auliche di inaudita bellezza si librassero per l’aere. Ho fatto tutto al meglio che ho potuto, che è il solo modo che conosca di fare le cose, con sincerità, trasparenza e quel po’ d’ironia che salva la vita. E solo per passione, senza mai chiedere niente in cambio, per il piacere di farlo e anche per non piangere da solo. Giusto o sbagliato che fosse, ho sempre scritto quello che pensavo, senza vendere le mie idee a nessun padrone questuando oboli da sopravvivenza, pratica più che mai diffusa fra certi scribacchini piuttosto miserabili. E senza accettare che ripostassero le mie cose sostituendo le ‘parolacce’ e rimettendo i cognomi in maiuscolo. Io sono etrusco e scrivo così: prendere o lasciare. Alla mia libertà ci ho sempre tenuto così tanto che il prezzo da pagare, anche quando è stato pesante, mi è perfino sembrato equo. Se penso che avrei potuto essere come cappellini ringrazio Dio anche senza essere credente. Col tempo la pagina è cresciuta molto, soprattutto per merito di Andrea che invitava i suoi lettori a seguirmi e non certo mio, emerito signor nessuno, ma se in molti siete rimasti forse qualcosa di buono l’ho fatto anche di mio. Avrei potuto continuare a tenerla aperta, per inerzia e abitudine, magari riprendendo le agenzie di stampa, postando necrologi e auguri di compleanno, copia e incolla ripresi qua e là, ricordo e citazioni di artisti volati via, un po’ di gossip e qualche battuta alla cazzo, e magari condendo il tutto con badilate di retorica e di buonismo un tanto al chilo, come di prassi per il bravo collezionista di like, ma ho sempre avuto aspettative alte, soprattutto da me stesso, e del consenso degli altri mi è sempre importato poco. Quando qualcuno ha apprezzato quello che ho scritto mi ha fatto piacere, certo, ma non ha mai spostato di una virgola quello che sono. Il solo consenso che cerco è il mio, e svendendomi ai numeri non l’avrei avuto. Tenerla aperta non avrebbe voluto dire tenerla viva. Qui ho conosciuto persone bellissime. E importanti. Da voi ho avuto molto e molto ho imparato. Con voi ho provato quel senso di appartenenza che mi si era acceso nell’anima quando vidi Gaber a teatro la prima volta, nel 1976, ma che via via si è sfilacciato dai nostri bisogni, rintanati ognuno dentro il proprio egoismo. Qui l’ho sentito riaccendersi, ci ho creduto ancora. Ma le cose non cambiano: i sogni rimangono tali, sono troppo grandi, e la realtà è troppo piccola per accoglierli e troppo stupida per capirli. Lascerò la pagina aperta ancora un po’, il pallone insomma, nel caso qualcuno volesse passare di qui a tirare due calci, e poi la cancellerò. Ho condiviso tutto con voi, stati d’animo emozioni e speranze, e riscriverei dalla prima all’ultima lettera di quello che c’è, ma è la mia pagina e la porterò con me. Non la lascio in questo tritatutto che la trasformerebbe in un attimo in un baule di ricordi da buttare in cantina ad ammuffirsi. Del resto l’evoluzione della specie non avrà certo bisogno delle mie tracce e la razza umana continuerà a sfracellarsi miseramente contro la sua fine anche senza le mie bischerate. Magari le cose cambieranno, andranno meglio, la nebbia ipnotica che ci avvolge si alzerà e perfino i giornalisti del Pensiero Unico, i più pavidi e servi del Pianeta, ritroveranno una traccia di dignità per raccontarci cosa quella nebbia nascondesse davvero; magari la smetteremo di votare incapaci e altra variopinta gente di merda convinti che ultramiliardari e sociopatici possano preoccuparsi dei nostri bisogni; magari nel mondo scoppierà la pace, gli attuali ordigni nucleari sufficienti a distruggere la nostra e tutte le altre galassie verranno svuotati del loro carico di morte e diventeranno fioriere per abbellire splendidi parchi dove i bambini di tutto il mondo potranno giocare liberi senza venire massacrati e senza morire di fame; magari le ricchezze del mondo non se le divideranno più quattro fetide teste di cazzo nutrendosi delle nostre vite e speculando sulle nostre miserie; magari un giorno le persone oneste non dovranno più vergognarsi di esserlo. Magari accadranno perfino i miracoli e il pd diventerà un partito di Sinistra, i 5S vinceranno le elezioni da soli, la meloni venderà le cozze al mercato rionale, ma la licenzieranno perché prende per il culo i clienti, mentre salvini farà il rappresentante di presepi a domicilio e tajani quello che gli dicono di fare; magari la tv la faranno anche senza Malgioglio, la mia Fiorentina vincerà finalmente una finale e io tornerò a scriverò un libro che venderà più copie di vannacci, così diventerò ricco e famoso come lui e con quei soldi fonderò un’associazione, poi un movimento e poi farò un partito col quale vinceremo le elezioni a mani basse e finalmente cambieremo le cose. Con i soldi perfino la democrazia potrebbe diventare possibile. E magari no. Non cambierà mai un cazzo di niente se non l’aprirsi di una voragine ancora più buia verso un abisso sempre più nauseabondo e dovremo imparare a sognare ancora più forte, se ne avremo ancora per sognare. Oppure dargliela vinta e staccare la spina, lasciare che il cervello sprofondi nelle sabbie mobili del niente e noi con lui. Di sicuro da stupidi si vive meglio: è scienza, baby. Ai tre o quattro convinti che gli mancheranno le mie cazzate dico di pensare a me come all’adesivo che si vede attaccato al lunotto posteriore di qualche macchina dove c’è scritto “Non seguitemi, mi sono perso anch’io”. Vorrei salutarvi con l’espressione che usava Jack Bauer nei momenti peggiori: “it's gonna be okay”, ma non sarei sincero. Non andrà bene proprio un cazzo di niente, ma in qualche modo ce la caveremo lo stesso. In qualche modo ce la caviamo sempre. Grazie a tutti, di tutto. E se a qualcuno ho fatto del male, gli chiedo scusa. Parlo di quelli che porto nel cuore, perché se l'ho fatto alle teste di cazzo era voluto. Buona fortuna. Vi voglio bene".