Non abbiamo intenzione di elogiare o criticare Viktor Orban. Fiumi di inchiostro sono già stati versati per attaccare o sostenere il primo ministro dell'Ungheria, improvvisamente diventato più famoso di qualsiasi altro politico sulla faccia della terra. Il motivo di tanto fermento? La sua politica estera. Distante anni luce dall'agenda di Bruxelles, per nulla lineare e, per giunta, troppo pragmatica.
Talmente tanto pragmatica da far scattare campanelli d'allarme nelle cancellerie di mezza Europa. La realpolitik orbaniana sembra avere un solo fine: consentire all'Ungheria di occupare il ruolo di mediatrice – lasciato fin qui clamorosamente scoperto – tra i due blocchi che si stanno scontrando in questa nuova Guerra Fredda. Ossia: Stati Uniti e Occidente da un lato; Russia, Cina e resto del mondo dall'altro.
Perché Orban ricorda Andreotti
È qui che torna dagli archivi della storia la figura di Giulio Andreotti. Un personaggio che in Italia (e non solo) non ha bisogno di presentazioni: presidente del Consiglio dei ministri tra il 1972 e il 1973, tra il 1976 ed il 1979 e nel triennio 1989-1992; ministero degli Esteri tra il 1983 ed il 1989, nonché della Difesa tra il 1959 e 1966, e per alcuni mesi del 1974. Un peso massimo della politica italiana, insomma, che si è sempre mosso con la volontà di far coincidere l'interesse nazionale con il realismo, la mediazione al pragmatismo.
Il volto della Democrazia Cristiana era un europeista e atlantista. Sapeva che al di fuori del quadro comunitario, e senza un aggancio agli Stati Uniti, l'Italia non sarebbe mai riuscita a svilupparsi. Riteneva però che, al contempo, fosse producente offrire a Roma la possibilità di avventurarsi in dossier scottanti: come il Medio Oriente, i rapporti con l'Unione Sovietica e il blocco dell'Est.
Torniamo nel presente. Se ci pensiamo bene il modo di ragionare di Andreotti ricalca la strategia di Orban. Basta sostituire Italia con Ungheria, Budapest con Roma, e il gioco è fatto. Il primo ministro ungherese resta ben ancorato all'Unione europea, il suo Paese fa parte della Nato ed è a pieno titolo atlantista (seppur con sfumature molto sbiadite).
Dall'altro lato, Orban ha lanciato bordate dirette all'indirizzo delle politiche di Bruxelles (dal tema dell'accoglienza dei migranti alle sanzioni contro la Russia), esaltato Donald Trump e strizzato l'occhio a Putin e Xi Jinping. Non due nomi qualsiasi ma, in teoria, i nemici sistemici dell'Occidente.
E allora cosa? Pragmatismo e nient'altro. L'Ungheria ha accolto a braccia aperte investimenti miliardari da parte della Cina in settori strategici, come quello delle auto elettriche e delle batterie per alimentarne i veicoli. BYD e CATL, due enormi aziende cinesi impegnate in questi ambiti, si sono già fatte avanti per piazzare le loro sedi europee all'ombra del Parlamento di Budapest. Scatenando, va da sé, le ire di Bruxelles, sempre più convinta di avere una serpe in seno.
C'è poi un'altra pista battutissima da Orban: quella russa. Il leader magiaro è volato prima in Ucraina poi in Russia per cercare di mediare tra i riottosi Zelensky e Putin. Missione per ora fallita, ma la sensazione è che ci saranno nuovi tentativi. Indipendentemente da come andrà a finire un fatto è certo: l'Unione europea non riesce a digerire la realpolitik in salsa democristiana di Orban.