Ma quanto sono teneri i meloniani, che all’arrivo di Javier Milei, il presidente argentino, si alzano in piedi e iniziano a battere le mani. Sognano la motosega, ma non sanno niente di lui o dei suoi riferimenti, chi siano Murray Rothbard, Hans Hermann Hoppe, Jesús Huerta de Soto. Non lo sanno e per questo battono le mani, perché conoscendoli avrebbero di ché lamentarsi. Oppure cambierebbero idea su molte cose, si vergognerebbero delle loro fasi politico-puberali, prima sovranisti, poi populisti, poi maggioranza parlamentare. Certo che Milei si accompagna volentieri a Donald Trump e a Giorgia Meloni. Come si è accompagnato a Vox in Spagna. Il realismo politico è una dota sottovalutata a sinistra, che infatti non vince più, ma che a destra conoscono bene (per lo stesso motivo esiste un centrodestra unito ma non un campo largo dell’opposizione). Chiunque voglia poter dire qualcosa scenderà a patti con la realtà e, con spirito pragmatico, farà il possibile per cambiare le cose in base alla propria visione. È talmente elementare che dirlo imbarazza un po’. Ma quanto sono ridicoli i meloniani che si sono convinti di avere in Milei un alleato ideologico, di cui apprezzare le idee, cadendo nella narrazione che di Milei ha fatto la stampa di opposizione. I meloniani, che odiano tanto Repubblica, fanno il suo gioco quando innalzano Milei a modello, a icona, considerandolo un estremista di destra, un quasi fascista amico dei dittatori argentini, di Donald Trump, di Vox e, quindi, di Giorgia Meloni. Credono ai loro nemici, i meloniani. Sono creduloni.
Il conservatorismo meloniano non è vero conservatorismo all’inglese, infattibile in Italia, né vero conservatorismo all’italiana. Come è stato detto nel nostro reportage di Atreju 2024, i giovani conservatori meloniani citano più Berlusconi che Alcide De Gasperi, sanno in linea generale chi è Prezzolini ma conoscono molto meglio Almirante. Infine, non hanno mai letto Guido Gozzano. Se lo avessero letto schiferebbero, probabilmente, Javier Milei, uno che lo Stato lo vuole distruggere ma che, per contingenze storiche (torna il pragmatismo), deve sfruttare per cambiare le cose e salvare un Paese che fino a un anno fa era sull’orlo della bancarotta, principalmente per colpa di decenni di politiche economiche peroniste e per un aumento dell’inflazione che si combatte solo con il liberismo. Ricetta che sega le tasse, i dipendenti pubblici e la burocrazia eccessiva, quella di Milei; che andrebbe per traverso all’attuale governo, che invece pare fregarsene. Ha ragione Carlo Calenda (e continuiamo a chiederci sia possibile il suo scarsissimo successo elettorale): “A Milei fanno ‘schifo i politici’. È contro la burocrazia e i bonus. È a favore della concorrenza. Odierebbe balneari e tassisti tanto per dire. Insomma è più o meno l’opposto della destra sociale di Fdi. Però ha grande successo tra quel pubblico. Perché? Semplicemente perché è famoso. Essere una star ha sostituito ogni categoria artistica, sportiva, politica e persino imprenditoriale. Per essere una star devi fare intrattenimento. Così si vincono le elezioni e così si può stare su un palco davanti a amministratori locali tutti vestiti come se andassero ad una prima comunione, spiegando che fanno schifo e venendo applauditi fragorosamente”. Ha ragione, e ci dà ragione quando sosteniamo che ad Atreju è andato in scena lo spettacolo più triste dell’anno: la fine della politica (fine che ovviamente non è stata causata esclusivamente da Fdi e che risale a molti anni fa). Persino le persone interessate alla politica sono andate a sentire Milei perché volevano lo show, volevano la motosega, il suo motto urlato dal palco, Viva la libertad carajo, e nient’altro. È la stessa cosa che chiedono a Simone Cicalone, Roberto Parodi o Elon Musk. Di certo non volevano capire. Restano fermi a balneari e tassisti, amano ancora rendite di posizione e gestione economica, politica e cultura ideologica, una politica/economia/cultura dei garantiti (e tra di loro, possibilmente, i meno meritevoli).