“Oliviero Toscani ha parlato duramente dei pubblicitari, ma il problema è più ampio”. Di pubblicità, anche costruita in modo irriverente e dissacrante, Riccardo Pirrone se ne intende. Quarantenne, a capo di un’agenzia che è tra le mosche bianche capitoline in un settore a guida milanese, Pirrone guida KiRWeb ed è noto come il social media manager dell’agenzia funeraria Taffo. Con noi discute dello scandalo emerso nelle ultime settimane a partire dal caso delle molestie protratte di cui sarebbe autore il pubblicitario Pasquale Diaferia denunciate da Michele Guastini e sul caso della celebre “Chat degli Ottanta” di We Are Social in cui dipendenti dell’agenzia milanese commentavano forme e lati B delle colleghe. Un caso che ha portato Toscani, come nell'intervista rilasciata a MOW, a dichiarare di non aspettarsi altro da “un autentico disastro” come le agenzie. Pirrone contesta questa visione, soprattutto l’affermazione secondo cui “l’unica cosa che sanno fare i pubblicitari di razza è toccare il culo alle ragazze” del celebre fotografo. Invita a non massacrare l’intera categoria. E lo fa, caso curioso, da outsider.
Lei è esterno dal tradizionale giro dei pubblicitari milanesi. Che idea si è fatto del caso?
“Si, sono un pubblicitario relativamente giovane rispetto alle persone emerse nello scandalo che avrebbe coinvolto, se i fatti saranno confermati, il mondo We Are Social. Il problema che è emerso riguarda però tutte le realtà lavorative di un certo livello. Non credo che sia l’unica chat di questo tipo e che solo qui ci siano casi di molestie verbali o addirittura fisiche su dipendenti donne. Si sta parlando, soprattutto sulla stampa, delle agenzie pubblicitarie come se le molestie fossero la regola solo qui”
Ritiene il problema più ampio?
“Un problema culturale, lo scandalo sarebbe potuto esplodere in qualsiasi settore: consulenza, finanza, metalmeccanica e chi più ne ha più ne metta. La realtà dei fatti è che da un lato è un bene che su queste cose si faccia la massima chiarezza e che dall’altro alle persone che hanno denunciato va concessa la massima vicinanza per il trauma subito nel momento dei fatti negli anni seguenti. Ma, in attesa che i fatti siano pienamente confermati, mi pongo una domanda”
Prego…
“Parliamo di questo caso di chat piene di messaggi indecorosi e spinti su colleghe pubblicitarie, ma dobbiamo chiederci: perché è stato insabbiato così a lungo. Beninteso, è importante che oggi se ne parli, è fondamentale che le dirette interessate abbiano trovato la forza di denunciare. Ma verrebbe anche da chiedersi perché ci siano stati tutti questi anni da silenzio nel mondo dei grandi pubblicitari”.
Ha frequentato spesso questi circoli di pubblicitari su cui c’è attenzione oggi?
Questi personaggi li ho incontrati spesso nei gruppi Facebook e nelle pubblicità online, un mondo all’antica dove ballano grandi budget. Ma parliamo di un mondo che non ho mai frequentato assiduamente. C’è tutto un mondo, che io definisco la “cricca dei vecchi pubblicitari”, le varie associazioni dei copywriter e dei pubblicitari che danno i premi ai vari spot o pubblicità più in voga, che io mi sono ben guardato dal frequentare assiduamente. Sembrava un mondo intento esclusivamente parlarsi addosso: pubblicitari che giudicano altri pubblicitari e li premiano in concorsi…a pagamento! Questa è un’impostazione vecchia: provocando potrei addirittura dire, esulando dalla cronaca, che per il suo modello di business We Are Social dovrebbe cambiare nome, il mercato si è biforcato e chi è davvero social sono agenzie piccole e medie che hanno provato a innovare la comunicazione. Mi hanno chiamato in passato per la campagna Taffo per ricevere un premio da una di queste cerchie, purché avessi pagato una cifra di circa 4mila euro. L’ho trovato assurdo. Lo scandalo nasce all’interno di un mondo di cui non abbiamo mai fatto pienamente parte.
In cosa si percepisce differente, a livello di metodo?
Il mondo delle agenzie pubblicitarie mi è sempre sembrato molto distante fin dalla nascita della mia agenzia nel 2005, all’inizio nel settore era difficile trovare posti anche solo in piedi. Ho cominciato a fare web e a entrare con i social nel mercato. Siamo 18 dipendenti, contro i 1.200 di un colosso come We Are Social, ma ci siamo ritagliati la nostra nicchia di mercato, soprattutto web, presidiandola con attenzione.
Non teme per il fatto che la condanna massiccia del mondo pubblicitario possa colpire la reputazione dell’intero settore?
Parto dal presupposto che è un rischio fondato: se le accuse verso i coinvolti nello scandalo fossero vere, e addirittura accertate in sedi terze e precise, ci troveremmo a dover attestare la contraddizione tra le logiche di un’industria pubblicitaria che dovrebbe essere attenta ai trend, alla diversità, all’inclusione per poi negarle sul campo. Il lustro si ottiene con la reputazione, che questo scandalo sta facendo perdere a tutti. Considerando l’aspetto lavorativo, giudico solo le mie campagne o quelle pubbliche che hanno a che fare con la collettività. E penso di poter avere una reputazione costruita sul campo al netto degli avvenimenti del settore.
Di cosa è particolarmente soddisfatto?
Col senno di poi, sono contento di aver costruito tanto con poco. Del resto, col mondo delle piccole e medie agenzie di Roma, e non di Milano, abbiamo costruito una nicchia alternativa. Ho lanciato un corso da 7mila iscritti per Social Media Manager e offro una scontistica alle donne pari alla quota di divario salariale nel settore pubblicitario: il 16%. Voglio mandare un messaggio a tutti gli uomini che partecipano al mio corso. E nel mio piccolo contribuire all’inclusione.
Infine, come giudica la campagna mediatica di narrazione del caso del cosiddetto “MeToo” italiano?
I giornali stanno accusando i pubblicitari in quanto tali. Ma cerchiamo di essere più aperti di mente. È sempre una questione di fattore umano e spesso riguarda il buon senso dei singoli, in ogni settore. Lascio con una nota personale. Noi che siamo ritenuti i re del “black humor” scriviamo cose anche super scorrette come brainstorming per le nostre campagne nelle chat interne ma mai arriviamo a minare la libertà, l’immagine o i sentimenti di qualcuno, a maggior ragione nei confronti di colleghi e collaboratori. C’è contesto e contesto, e prima di ogni cosa viene il rispetto per la professionalità di tutti.