Sul tavolo del risiko bancario italiano è apparsa una mano che parla francese. Mentre fino a pochi giorni fa si sbandierava l’idea di “difendere l’interesse nazionale”, oggi a salire sopra il 20% di Banco Bpm è Crédit Agricole: l’istituto guidato da Olivier Gavalda ha superato la soglia rilevante tramite una posizione in derivati dello 0,3%, una manovra finanziaria che replica il copione già visto con UniCredit e il suo Ceo Andrea Orcel in Commerzbank. Con questa mossa, Crédit Agricole raggiunge il 20,1% del capitale, diventando un azionista decisivo.
La partita è tecnica quanto strategica. Un passaggio chiave sta proprio nei derivati: strumenti finanziari complessi che permettono, in questo caso, di controllare azioni senza possederle direttamente. Il contratto sottoscritto, un total return swap con regolamento in contanti, dà però alla controllata Delfinances il diritto, una volta ottenute le necessarie autorizzazioni, di ottenere fisicamente le azioni. In pratica, un piede dentro e l’altro pronto a entrare completamente.
Le intenzioni di Crédit Agricole restano apparentemente prudenti: “Non intendiamo acquisire né esercitare il controllo su Banco Bpm”, assicurano i vertici a Consob e ripetono ai giornali. Tuttavia, il superamento del 20% consente di qualificare il proprio investimento come “influenza notevole”. In termini meno criptici, significa che il gruppo francese potrà contare molto di più nelle scelte strategiche di Banco Bpm senza dover lanciare un’Opa (offerta pubblica di acquisto, in gergo “scalata”) totalitaria, cioè senza dover comprare tutte le azioni e prendersi legalmente il controllo.

Il contesto politico non passa inosservato. Dagospia attacca: “Ci voleva un governo di ‘patrioti’ per regalare Banco Bpm ai francesi”. Dopo il muro alzato dal governo con il “Golden Power” contro l’Ops di UniCredit, è il sottotesto sarcastico è che sembra complicato ora per Palazzo Chigi sostenere che un gruppo francese possa “tutelare meglio gli interessi strategici nazionali” rispetto a una banca italiana.
Intanto, il Monte dei Paschi di Siena osserva e valuta le proprie mosse. L’altro fronte caldo del risiko coinvolge Mps e Mediobanca, che ha anticipato al 21 agosto l’assemblea per l’Ops su Banca Generali. Il “blitz” di Nagel (amministratore delegato di Mediobanca) non è passato inosservato e alimenta tensioni tra i grandi soci, con Caltagirone già pronto ad azioni di responsabilità se il Cda di Generali dovesse approvare gli accordi.

Il meccanismo? Per far scattare l’Ops (offerta pubblica di scambio, cioè proporre agli azionisti di scambiare le proprie azioni con altre), come sottolineato anche da Milano Finanza serve una serie di condizioni: ok dei regolatori, almeno il 51% delle adesioni, un accordo strategico di lungo periodo e 12 mesi di lock-up (blocco della vendita delle azioni ricevute dallo scambio). Eppure, se i soci di Mediobanca daranno il via libera, l’offerta sarà legalmente vincolante e non potrà essere ritirata, come ha ricordato lo stesso Nagel.
E Mps? Il ceo Luigi Lovaglio gioca le sue carte con prudenza. Potrebbe semplicemente restare fermo, o tentare un rilancio last minute, ad esempio alzando il prezzo, mossa che potrebbe spostare gli equilibri proprio alla vigilia dell’assemblea. Secondo Milano Finanza, l’operazione costerebbe oltre due miliardi, cifra comunque sostenibile per la banca senese, che ha una “riserva” di capitale non trascurabile. Un’altra strada sarebbe agire sul rinnovo anticipato del board di Mediobanca, provando così a rimescolare la governance e rivedere gli accordi con Generali.