Vicino casa hanno aperto l'ennesimo locale, sembrerebbe con poche pretese e di quelli dove non ti chiedono dieci euro per due dita di vino. Mi siedo con un'amica, bevo e mi guardo intorno. La polizia sta bloccando il traffico su via Aselli mentre io butto giù l'ultimo sorso di birra. A tracolla ho la mia Pentax analogica (che poi non userò) e in borsa la Canon con un obiettivo che so già che mi farà smadonnare, ma il mio fidato cinquanta millimetri non è adatto per l'occasione. Mi avvio verso piazzale Gorini, punto d'incontro da cui partirà il corteo per i cinquant'anni dalla morte di Sergio Ramelli, giovane militante del Fronte della Gioventù ucciso a 19 anni da un gruppo di Avanguardia Operaia. Un evento che ho sempre seguito da lontano, guardando i video su Instagram, nonostante via Paladini sia vicina a dove ho (quasi) sempre vissuto. Una manifestazione che ho "disprezzato", in un certo senso. Però questa volta sono qui per lavoro e provo a sospendere il giudizio.

Incontro un mio ex compagno del master, facciamo una chiacchiera veloce, poi mi concentro sui partecipanti. Erano attese più di duemila persone e a colpo d'occhio è difficile dire quanti siano, ma sono sicuramente tanti. Mi concentro sui dettagli: tatuaggi al limite, magliette con slogan, una signora con un cane dentro al passeggino, un uomo con la maglia "Me ne frego della diffida". La polizia guarda da lontano. A differenza di quello che si può pensare il corteo per Sergio Ramelli è silenzioso. Un rito quasi religioso per chi è lì, un momento solenne. Mentre scatto mi si avvicina un ragazzo alto, vestito bene. Avrà più o meno la mia età. Mi dice qualcosa, non capisco, gli chiedo di ripetere. "Lo sai che non mi puoi fotografare vero? Sono minorenne". A me viene da ridere. Mi guarda dall'alto in basso, con l'aria di chi vorrebbe metterti le mani addosso, ma sa che non può farlo. Gli spiego che non l'ho fotografato (vero) e che sto lavorando (altrettanto vero). Si allontana, con le spalle dritte e lo sguardo fiero di chi pensa di aver compiuto chissà quale gesto eroico. Quasi mi avesse zittito. Quando l'unica cosa che mi chiedo è perché tu sia lì, con cameramen, giornalisti e fotografi, e abbia il pensiero di essere ripreso in qualche modo. Hai forse paura che qualcuno ti veda? Alla fine mi sfuggono tre parole che in questo contesto sarebbe meglio non dire. E per fortuna lui non mi sente. Il corteo doveva partire alle 20, ma iniziano a muoversi solo alle 21. Passo solenne, in file da cinque, spalle dritte, petto in fuori, sguardi fieri, ma anche rabbiosi. Mi ritrovo in testa al corteo, scatto concentrandomi sui volti che mi stanno raccontando una storia. Mentre ci spostiamo sento un fotografo dire: "Eh se non sapete fare le foto statevene a casa". Si sarà forse dimenticato che anche lui ha iniziato come tanti che sono lì, buttati tra le persone, cercando di capire come muoversi, cosa fare e non fare? Quando incontro soggetti come lui capisco perché nel nostro Paese l'informazione sta lentamente fallendo. I giornalisti fanno finta di collaborare, di spalleggiarsi, ma poi si prenderebbero a pugni per il posto migliore, per fare lo scoop. Mi viene in mente Weegee, tra i grandi maestri della fotografia e considerato uno dei maggiori fotoreporter di cronaca nera (a lui è ispirato Lo sciacallo - Nightcrawler, film del 2014 con Jake Gyllenhaal). Uno che ha vissuto come un homeless, che voleva fotografare gli eventi mondani ma si rifiutava di indossare la camicia e la cravatta. Ecco, penso a lui non perché io sia una grande fotoreporter, ma perché sento di non voler sempre scendere a compromessi per poter fare il mio lavoro.


Il corteo intanto prosegue in silenzio e dopo un tempo che sembra infinito arriva in via Paladini. Riesco a trovare un buon posto, mi fermo e attendo che tutti i partecipanti prendano posto e sì, sono tantissimi, riempiono la via. Il silenzio è spezzato dalle voci dei bambini che cantano "Bella ciao". Ed è proprio nel momento del "presente" per Sergio Ramelli che la canzone parte davvero, dalle casse di qualcuno che si trova nel palazzo del murales con la semplice scritta "Ciao Sergio". "Vaffanculo", "porci", ma i camerati invitano al silenzio, a non rispondere. Il momento del "presente" visto da vicino mi spezza in due. Vorrei piangere e penso alle uniche parole sensate che mi sono scambiata, in queste ore, con una delle poche persone che conosco che riesce quasi sempre a dire la cosa giusta. "Ricordati che era un ragazzo di 19 anni al quale hanno fracassato il cranio con una chiave inglese. Uno contro tanti. Vigliacchi figli di papà che per anni l'hanno fatta franca protetti da quelli di sinistra. E questa è storia". Io rispondo che sto lavorando, sospendendo il giudizio. "Eh no! Il giudizio bisogna darlo. Contro ogni violenza. Che non ha colore. E la giustizia vale per tutti. Senza lasciarsi influenzare dalle puttanate, come il saluto romano o la cerimonia del presente. La giustificazione del cazo dei comunisti. Impuniti".

Vorrei piangere perché ho 32 anni, tredici in più di quando Sergio Ramelli è morto. Io sono andata avanti con la mia vita, ho avuto la possibilità di fare quasi tutto, lui no. E questo, è vero, non ha ideologie politiche. E sarebbe potuto succedere a chiunque, per una parola o un gesto sbagliato ieri, ma anche oggi. Tutto questo va oltre il mio orientamento politico. Mentre torno a casa mi scrive una mia amica, la raggiungo per mangiare qualcosa, sono passate da poco le 22. Al chiosco dei panini vicino casa chiacchieriamo con due uomini, uno più anziano, l'altro più giovane. La conversazione parte da una battuta sui pelati, che lui sente e ci dice "beh io ero lì e ho ancora tutti i capelli". Parliamo di "Bella ciao" ("non era mai successo, è chiaramente una provocazione") e di come oggi "non si possa più dire nulla" e qualsiasi cosa venga presa per esternazione fascista. Io ascolto, e anche se lui biascica un po' questo momento di confronto è prezioso, mi aiuta a mettere i pezzi insieme, a capire che non tutti quelli che chiamiamo "fasci" lo sono in modo canonico.

Ci salutiamo e mentre ordiniamo i nostri panini un tizio, palesemente fatto e/o ubriaco, non riusciamo bene a capirlo, ci importuna toccandosi il caz*o e dicendoci "è bello grosso". Ci sono altre persone intorno, guardano, nessuno fa niente. Mentre mi sposto penso che forse, oggi, la chiave di lettura è questa: non dobbiamo essere indifferenti. E se guardiamo a quello che succede intorno a noi, che sia la commemorazione per Sergio Ramelli o qualsiasi altra cosa, dobbiamo farlo giudicando non per sentito dire, per sentirci migliori o altre puttanate simili, ma perché abbiamo compreso, studiato, e abbiamo rispetto di quello che vediamo, al di là del colore, al di là delle ideologie politiche.
