Il Cabudanne de sos poetas è una festa di fine estate, una piccola morte della stagione in cui sconosciuti e concittadini si ritrovano in un frutteto pieno di alberi di fichi, per festeggiare. Ha il sapore pagano di un inno alla vita fatto di parole, musica, luci e suggestioni. Il paesaggio sardo occupa uno spazio fondamentale e necessario in questa manifestazione, tra melograni, gatti dalla coda sontuosa, asini e nuraghe. Stiamo ravvivando il fuoco millenario dei popoli che hanno messo una pietra sopra l’altra millecinquecento anni prima di Cristo. Stiamo, perché io, che non sono sardo, comunque mi trovo spalla a spalla con maestre in pensione, contadini, fattori, bariste, cameriere, pizzaioli e poeti del luogo, e sento di fare la mia parte. Seneghe è un paesino di 1700 abitanti, si parla la Limba de mesania, non chiamatelo dialetto. È una variante della lingua sarda che non rientra esattamente nel logudorese e nel campidanese, le due principali partizioni ortografiche del sardo. Hanno una loro lingua, un loro paesaggio, la città è posizionata in alto e risulta molto isolata. Al contrario, i seneghesi sono aperti e gioviali, sorridenti, forse orgogliosi e onorati di vedere, nel loro piccolo paesino, ospiti dal “Continente”. Così chiamano l’Italia, “il Continente”, per dire “l’estraneo”, “ciò che non è sardo”. Me lo spiegano i ragazzi che ho bloccato per le strade, all’ombra degli alberi da frutto, seduti sui palchetti dell’evento, mentre delle casse mimetizzate con i tronchi riproducevano la lettura di Carmelo Bene della Divina Commedia (che, purtroppo, non è la mia preferita). Le nuove generazioni non hanno certo quella diffidenza per l’Italia che potevano avere i loro nonni, o la signora che ci guarda mentre li intervisto, appoggiata al muretto di ingresso di casa sua, mentre strofina tra pollice e indice un fazzoletto di carta. Però la Sardegna è la Sardegna. Quando chiedo se questa regione di senta parte dell’Italia quasi tutti mi rispondono “ni”. Il maestro di musica mi spiega che sono animati da un sentimento fortemente identitario e indipendentista, a cui si aggiunge spesso la mancanza di inclusione dalla Penisola. “L’insularità è più di un fatto meramente geografico”. Lui comunque si sente anche italiano. Europeo non lo sa, perché spesso già l’Italia è una realtà lontana dalla loro quotidianità, figuriamoci l’UE. Questa è una risposta che torna: “L’Europa non mi interessa, non la sento, non incide molto nella mia vita”.
Qual è il problema più grave della Sardegna? Per la dottoressa in geologia accanto a me è l’assenza di dialogo, la chiusura mentale, la mancanza di collaborazione con gli altri. Il musicista conferma: “La mentalità è: se aiuto te, poi rischio che mi superi”. Ma di difetti ne trovano anche altri. Lo studente di lettere a Bologna e la logopedista mi parlano degli stereotipi, di come la Sardegna si faccia troppo spesso brandizzare attraverso equazioni banali, inappropriate, come “Sardegna = bel mare” o “Sardegna = gente chiusa”. Il ragazzo mi guarda e leggermente imbarazzato mi chiede: “Forse è un po’ volgare, posso?”. Certo. “La Sardegna, dice un proverbio, è fidanzata di nessuno, puttana di tutti”. Ed è la Sardegna a voler essere puttana. Le piace fiancheggiare la strada con il suo culo di mare scoperto, il seno nuragico ok, ma poi l’entroterra lasciamolo stare. Si arriva, appunto, alle tette, non si va al cuore (per esempio, cos’è davvero la sardità?). La Sardegna si sente bella a essere toccata, magari maltrattata. Ascolto i ragazzi che sono intorno a me, parlano di infrastrutture carenti, di manutenzione che, boh, prima o poi verrà fatta. Non piove da maggio (tranne uno scroscio repentino il 31 agosto, la sera in cui sono arrivato con la mia ragazza per alloggiare in via XXIV Maggio, in una casa solare e antica). I campi sono arsi e passeggiando in una stradina tra gli orti trovi teschi di bucefalo, di capra e sopra a una fiat probabilmente rotta, due corna con ancora lo scalpo della bestia attaccato, uno spinotto consumato e un rosario arrugginito. Seneghe è un piccolo gioiello, strade pulite, silenzio, la Chiesa è stata pure ristrutturata. Ma tutt’intorno si ripete all’infinito, chilometro dopo chilometro, la vendita di stereotipi di cui ci hanno parlato: interno vuoto, spiagge piene. La metafora può essere ancora sessuale: la gente sollecita senza penetrare, preferisce le labbra morbide delle onde sulla spiaggia di quarzo bianco, Is Arutas, alla rude e cavernosa, oltre che primitiva, terra rossa e gialla, intervallata da piante basse e ricci di erba grigia. Senza contare che la pur comoda strada asfaltata verso il nuraghe ha la colonna sonora di sciami di vespe che succhiano via l’appiccicume dei fichi.
Chiedo al poeta Francesco Ottonello di parlarmi un po’ dei problemi della Sardegna e di cosa farebbe se dovesse votare per l’indipendenza. “Mah, io direi di lasciarsi governare. Direi, paradossalmente, che dovremmo votare per diventare, come si era pensato qualche anno fa, cantone svizzero, o land tedesco. Perché dovrei scegliere fra incompetenti? Questo vale anche per l’amministrazione regionale, visto che siamo una regione a statuto speciale e non riusciamo a farci sentire”. “I sardi hanno una memoria del colonialismo e non sopportano l’invasione”. In molti hanno sottolineato anche che la maggior parte dei siti sono dentro chiusi privati. Ci cagano le mucche e per entrare devi chiedere a qualcuno. Quasi per tutti è un problema, anche se per Ottonello non del tutto, e a ragione: “Spesso anche i siti istituzionalizzati sono lasciati a sé. Alcuni sono ben gestiti, c’è da dirlo. Altri sono chiusi e non vi si può comunque accedere, nonostante siano pubblici. Addirittura il pozzo di Tattinu è stato coperto per evitare che crollasse, ma poi la copertura stessa è venuta giù e lo ha distrutto. Stava lì da, non so, tremila anni”. Parla di imbecillità e questo termine si aggiunge al nostro ventaglio di parole per inquadrare la Sardegna: prostituzione, imbecillità, stereotipi. E pensare che quest’isola, come ogni regione, è bella, ha molto da dirci. Ma se non parla neanche a se stessa, evitando sistematicamente che si insegni a scuola la storia e la lingua sarde (me lo ricorda sempre Ottonello, ma anche gli altri ragazzi), come può pretendere di aprirsi, di essere riconosciuta per ciò che è? Se gira con le spiagge al vento, se si cala le mutande di sabbia e non mostra il cervello, l’eredità millenaria incrostata tra le alture e le campagne, dove si fanno maialino arrosto e brodo di pecora, come potrà sopravvivere?
Fortuna il Cabudanne, un’oasi di controversie e versi. Tra gli interventi di poeti e poetesse, si infilano discussioni di paese, riunioni per parlare di politica e di bandi pubblici. Si tratta di sopravvivenza, di una politica fatta di azioni e competenza e che, qualora fallisse, porterebbe con sé l’intero paesino. Prima di partire facciamo un giro di saluti, ragazze e ragazzi con il sorriso hanno deputtanizzato la Sardegna, nel loro piccolo, creando qualcosa di bello e più complesso. Hanno fatto sì che la Sardegna venisse ascoltata anche attraverso la voce di continentali non sardi, italiani curiosi che, sì, si saranno fatti anche il mare, ma hanno lasciato sudore e voce tra i recinti polverosi di fichi e fichi d’India, tra le strade di paesi a 305 metri sul livello del mare, accanto a persone che non si vergognano di parlare il sardo, di sorriderci con i volti abbronzati dal lavoro pastorale, per poi indicarci la strada per la Chiesa, o quella per la Tomba dei Giganti.