Esiste un libro di Iain Sinclair, considerato a ragione il più importane psicogeografo vivente, secondo forse al solo Guy Debord, che la psicogeografia ha canonizzato, libro che si intitola “L’ultima Londra”, edito in Italia dai tipi del Saggiatore, che racconta come la capitale britannica sia una città in continuo movimento, quasi impossibile vederla due volte uguale a sé stessa. Partito da lontano, quando cioè la London Orbital che ha dato il titolo al suo libro più famoso e fondamentale per chiunque si occupi di urbanistica, Sinclair prova a raccontare come i tanti cambiamenti apportati a Londra, basti pensare a cosa è accaduto alla zona a sud del Tamigi in vista del cambio di millennio, abbiano influito sulla definizione stessa di londinese, oltre che esserne chiaro sintomo. Che Londra sia modello spesso indicato come matrice di una visione futura della Milano di Beppe Sala e della sua giunta non è un segreto, pur con tutte le differenze che possono intercorrere tra una città britannica e una italiana e soprattutto tra una megalopoli di circa venti milioni di abitanti e una di neanche un milione e mezzo (la storiella della Grande Milano è già stata attuata fino a oltre un secolo fa, e l’annessione dei comuni limitrofi è inattuabile, Monza e Brianza come provincia in tal senso dicono molto di quello che c’è da dire), ma almeno in una cosa il paragone può assolutamente sussistere, in questa volontà, quasi una smania, di cambiare costantemente pelle. Volontà figlia di un progetto, chiamarla visione toglierebbe dal campo le sfumature legate al business che invece pesano eccome nel ridisegno milanese, che sta cambiando la morfologia urbana, quello che in America chiamerebbero lo skyline, ma anche modificando, la psicogeografia su questo è sì visionaria, l’assetto cittadino, con interi quartieri gentrificati, in città si dice in maniera agghiacciante “bonificati”, in una novella forma di borghesizzazione delle semiperiferie. Se quindi guardando verso quella che un tempo era chiamata Isola, il quartiere posto tra Garibaldi e piazzale Lagosta, oggi si ammirano i nuovi grattacieli che hanno Piazza Gae Aulenti come cuore, dal grattacielo Unipol al famosissimo Bosco Verticale di Boeri, spostando lo sguardo verso la zona della vecchia fiera sono le tre torri di City Life a svettare indisturbate, col risultato che vista da lontano Milano più che a Londra somiglia vagamente a Los Angels, una sola zona in cui si concentrano i nuovi palazzoni, tutti frutto di design, su una città che per il resto si sviluppa in orizzontale, neanche per troppi chilometri quadri.
In questa nuova idea di Milano, chi potrebbe uscire penalizzato dalla narrazione vigente è il centro, chiunque si sia trovato a parlare con un milanese, di nascita o di adozione, avrà a un certo punto sentito dire che “Milano è bella, ma non di una bellezza sfacciata, sbattuta in faccia, tocca andarsela a cercare”. Ecco, in realtà Milano è bella e basta, chi dice il contrario ha una idea di bellezza a senso unico, legata alla classicità, per altro a sua volta ben presente a Milano, o più semplicemente non ha mai fatto un giro in città. Tolta infatti la sfacciataggine del Duomo, e non sta certo a me mettermi qui a dirvi come il Duomo di Milano sia una delle opere di architettura più importanti d’Italia, tutto quel che vi si muove attorno è a suo modo di una bellezza spiazzante, perché ingenuamente inaspettata, quasi sempre meritevole di quella narrazione che negli anni si è più spostata verso una ipotetica evoluzione che verso il passato, come se fosse possibile evolversi non partendo da un “prima” per arrivare a un “dopo”, e soprattutto fosse possibile pensarsi senza un “nel mentre”. Tutto questo per dire che sono andato a una Live Night alla Cantina Piemontese di via Laghetto 2, a due passi dal Duomo e dalla Statale, ultima di quattro serate jazz con la direzione artistica di Pepe Ragonese, almeno per questo 2023, e ancora una volta mi sono ritrovato incantato, non solo per la cena e la serata musicale, di cui andrò poi a parlarvi, ma della zona nella quale il locale sorge. Vi ho raccontato già della Cantina Piemontese e di come sorga nel luogo che un tempo ospitava la carbonaia della fabbrica del duomo, non intendo tornare di nuovo su quella storia, affascinantissima, quel che posso dire è che ascoltare ottima musica jazz in un contesto del genere, per altro dotato di una acustica che farebbe pensare a tutt'altra destinazione che a una carbonaia, ha un fascino che difficilmente potremmo associare a uno di quei luoghi futuribili di cui ultimamente Milano fa così sfacciatamente vanto. Per arrivare qui, domenica sera, però, io e mia moglie siamo passati dalla contigua piazza Santo Stefano, dove si erge la basilica al primo martire dedicata, con a fianco quel gioiello seminascosto che porta il nome di San Bernardino alle Ossa. Ho lavorato per molti anni a due passi da qui, nel palazzo di Corso Europa 7 sotto il quale si dipana, un po' mesta, invero, la Hollywood Boulevard milanese, tutte le gettate di cemento con nomi e calchi delle mani delle star che hanno ricevuto negli anni il Telegatto, io nella redazione di Tutto Musica, un piano sotto quella di Tv Sorrisi e Canzoni, appunto, e due sopra la sede di MTV, dove oggi si trova il Caf della Acli. A due passi da quello che un tempo era il Teatrino dove si tenevano gli show live delle pornostar italiane, da Cicciolina a Moana Pozzi, e che oggi ospita il Centro Studi di Comunione e Liberazione, essendo le mura di proprietà della curia arcivescovile ambrosiana. Ci ho messo piede per la prima volta l'anno scorso per prendere parte con Massimo Bernardini e Andrea Mirò a una serata dedicata a Giorgio Gaber, ma della versione precedente del Teatrino di San Babila ho sempre sentito parlare, non certo senza una certa dose di divertita incredulità. In quegli anni, bei tempi nei quali il lavoro di critico musicale aveva tempi e modi decisamente meno aggressivi, si lavorava anche un intero mese a un unico servizio, pensa te, mi capitava spesso di attraversare questa piazza in pavè, un tipo di pavè particolarmente aggressivo, quasi impraticabile anche a piedi, piazza cui si accede da uno slargo su cui ora si trova una tipica panchina con statua di umano, non saprei dire chi, è buio la sera, seduto, come succede con Lucio Dalla a Piazza Grande a Bologna, a o Italo Svevo o James Joyce a Trieste, andando poi verso la zona della Statale per pranzare coi miei colleghi. Qui vicino, per dire, c'era un ristorante fiorentino che noi eravamo soliti chiamare "Da Pacciani", ristorante dove mangiavamo spesso, assolutamente tra i nostri preferiti. Il motivo di tal nomignolo era dovuto a una estrema somiglianza fisiognomica tra il titolare e appunto Pacciani, l'accento toscano a dare al tutto qualcosa di inquietante. Credo che ci sia capitato anche di dirglielo, a Pacciani, che lo chiamavamo Pacciani, forse per spiegargli perché mai, categoricamente, mangiassimo piatti a base di carne, ma magari questa è una ricostruzione ex post fatta dalla mia vacillante memoria, e la faccenda della carne era qualcosa che ci eravamo detti e tenuti per noi. Chissà cosa avrei mai pensato a sapere che a pochi passi da Pacciani si trovava appunto San Bernardino alle Ossa, la piccola chiesa, scurissima, che ospita al suo fianco un ossario pieno di teschi e tibie, centinaia, forse migliaia, ogni centimetro delle pareti ricoperto da ossa, anche a formare croci o disegni. Ai tempi avevo oltre vent'anni meno di adesso, ma dubito avrei scherzato così tanto su quella somiglianza.
Mi piacerebbe poter dire che la nebbia fitta come un paltò ha reso quell'avvicinamento alla Cantina Piemontese ulteriormente fascinoso, come in una di quelle scene dei racconti su Jack lo Squartatore che sempre Iain Sinclair ci ha regalato, sua la tesi relativa al pentacolo dell'architetto Christopher Wren che congiungeva chiese da lui progettate in città, a partire dalla Cattedrale di Saint Paul, all'interno del quale sarebbero stati compiuti tutti gli omicidi dal più famoso serial killer del passato, tesi poi ripresa dal fumettista Alan Moore e in seguito dai fratelli Hughes, per il loro film con Johnny Depp. Mi piacerebbe ma il forte vento che in questi ultimi giorni ha battuto a tappeto l'Italia ha reso l'aria talmente limpida da renderla quasi impalpabile, dalle finestre di casa mia distinguo perfettamente le montagne del lecchese, una per una, il freddo tagliente a togliere di mezzo anche solo l'ipotesi di un minimo di foschia. Una volta scese invece le scale della Cantina Piemontese, che in realtà ha anche una grande sala al piano terra, il Night Live si tiene però nei sotterranei, in quella che viene chiamata, anche di questo vi ho parlato in precedenza, Sala Tencitt, ci si trova di fronte a una ambientazione decisamente molto affascinante, assolutamente, e senza neanche quell'allure spaventevole che aver costellato le mie parole di citazioni che basculano tra Pacciani e Jack lo Squartatore potrebbero aver fornito a questo mio racconto. Un moderno gioco di luci soffuse su una struttura con volta a botte in mattoni a vista, il tepore che ci abbraccia dopo gli schiaffi presi dal vento freddo in strada, le eleganti decorazioni natalizie a ornare le volte, tutto contribuisce a creare atmosfera, atmosfera che a cena finita, dalle ventidue e quindici circa, verrà esaltata dalla musica dele trio di Claudio Sanfilippo, che vede la sua chitarra e la sua voce accompagnate dalla chitarra di Val Bonetti e il contrabbasso di Rino Garzia. Claudio Sanfilippo, classe 1960, è un cantautore dal lungo pedigree, e per altro ha in passato dato vita con Carlo Fava e Folco Orselli proprio alla Scuola Milanese, il cui sottotitolo era "Storie e canzoni tra i banchi di nebbia", vero e proprio format che per anni è stato rappresentato allo storico La Salumeria della Musica, vedendo i tre protagonisti, in compagnia di tanti ospiti, alternare canzoni a racconti, Milano, sempre Milano, al centro della scena.
Ma facciamo un passo indietro. La cena. La cena si tiene in una delle due sale che si trovano al primo piano, cui si accede passando per il giardino che d'estate, immagino, diventa il punto di forza della Cantina Piemontese. La sala principale porta il nome di Giò Ponti, riproponendo l'ambientazione di una tipica casa milanese anni '30, ovviamente rivista con gusto da interior design, su tutto una serie di "quadri di luce" che appunto intendono omaggiare l'architetto milanese. L'altra sala, che è poi quella nella quale ci fanno accomodare, è più intima, isolata, sempre col medesimo arredamento, e porta il nome di Sala Laghetto, come la via che ospita il locale e anche come il Laghett de Milan che un tempo si trovava esattamente dove ora affacciano le finestre della sala. L'ambiente è elegante, con un pavimento d'epoca che ben accompagna le linee morbide delle poltroncine usate a mo’ di sedie, anche qui un gioco di luci originale a donare al tutto un'atmosfera non troppo diversa da quella che poi ci regalerà Sanfilippo di sotto. La clientela è a maggioranza straniera, nessuno parla a voce alta, come a non profanare un luogo evidentemente votato al relax. Accompagnati con discrezione dal maître, competente e educato, optiamo per una bella gamma di assaggi dei piatti del menu, costantemente aggiornato coi prodotti di stagione, abbinando al tutto un terzetto di vini con base rossa, siamo pur sempre in un ristorante piemontese, che parte da un Nebbiolo rosé spumantizzato di una cantina totalmente al femminile, per gli antipasti, Nebbiolo dal sapore intermedio, non troppo strutturato, per i primi, Barbaresco particolarmente fruttato per i secondi. Per antipasto abbiamo preso un tris a base di peperone ripieno alla piemontese, con sopra la classica acciuga, insalata di coniglio e vitel tonné. Per primi una variazione al menu del giorno, tortello di Castelmagno con crema di tartufo nero con burro e salvia e gnocchi di patate con salsiccia. Per secondo coniglio con purea e animelle, vera specialità della casa. A chiudere un passito Estasi con una torta di nocciole d'Alba con zabaglione. Finita la cena, spaziale, neanche ce ne siamo accorti ma quasi un paio d'ore sono volate, tra sapori raffinati e deliziosi e un'atmosfera davvero intima e rilassante, siamo scesi alla Sala Tencitt, passando stavolta dall'interno, accompagnati da una cameriera. Il passaggio è a sua volta spettacolare, perché mostra gli oltre seicento vini della cantina, essendo questo un locale che si rifà alla tradizione piemontese il vino ne è ovviamente punto di forza, passando poi per una sala non troppo grande, con un tavolo al centro e le pareti interamente coperte di vini, affittabile per eventi che prevedano un numero di partecipanti non troppo numeroso, fino a arrivare alla sala dove di lì a poco avrebbe iniziato il concerto di Claudio Sanfilippo. Seguirlo comodamente seduto su due poltrone, circondati da libri, due bicchieri di vino passito sul tavolinetto di fronte, le luci natalizie che incorniciavano gli archi a botte a rendere il tutto ancora più suggestivo, giuro, la voce calda di Sanfilippo, accompagnato da due musicisti di livello come Val Bonetti e Rino Garzia, cui a un certo punto si è aggiunto con improvvisazioni alla tromba anche il direttore artistico Pepe Ragonese, tra cantautorato classico e bossanova, di colpo è come se quella Milano antica che da certe canzoni veniva rievocata, i Beppe Viola e i Gianni Rivera, la nebbia di cui sopra, un certo gusto per gli aneddoti che non finivano solo dentro i testi delle canzoni, è come se di colpo quella Milano antica fosse tornata a farsi presente, qui del resto in passato ci suonavano altri cantautori, da Jannacci a Gaber passando per Adriano Celentano. Una atmosfera fuori dal tempo, lenta, in una città la cui iconografia, torniamo al punto di partenza, è sempre stata legata alla velocità, se non addirittura alla superficiale fretta. Un mood decisamente in contrasto con certe politiche green che stanno ridisegnando il tutto, ma almeno stasera non mi voglio rovinare il fegato a parlare di palazzinari e incomprensibili scelte urbanistiche, mi lascio coccolare dall'ospitalità e anche da un po' di magia.
Passato dicembre, mese dedicato più a eventi privati legati al Natale che alla musica dal vivo, riprenderanno le serate musicali della domenica, vi consiglio di tenere d'occhio i social di Cantina Piemontese o frequentarne il sito, perché Pepe Ragonese non è solo un grande trombettista, stasera ne ho avuto ulteriore conferma, ma anche un competentissimo direttore artistico, in grado di chiamare attorno a sé musicisti e artisti di primo livello. Giorni fa ho letto un articolo che parlava di uno studio fatto non so in che università, vai poi sapere se è vero o una di quelle notiziole acchiappaclic che circolano spesso sui social. L'articolo raccontava come questo studio aveva portato alla creazione di una app che, inserendoci dentro tutta una serie di dati, quali data di nascita, età, altezza, peso, attività sportive praticate, lavoro svolto, città nella quale si vive, basandosi immagino anche su un buon database statistico ti indicava esattamente la data nella quale saresti morto. Ovviamente la cosa lasciava abbondantemente il tempo che trova, perché figuriamoci se una app può sapere, per dire, se domani arriverà una auto fuori controllo e ci falcerà mentre siamo fermi al semaforo sotto casa, per dire, e mentre lo scrivo sto utilizzando una cannuccia infilata in bocca per digitare queste parole sulla tastiera, riproponendo una versione smart e casalinga di quel che Daniel Day Lewis faceva ne Il mio piede sinistro, andando poi a vincere il Premio Oscar, le mani impegnate in gesti scaramantici. Di fatto quella app mi ha comunicato che morirà a ottantacinque anni, mi sono guardato bene da appuntarmi la data precisa, per altro più giovane dei miei genitori, a dirla tutta, alla faccia che la vita si allunga. Sul momento ero quasi stato tentato di vedere se, alterando un po' i dati, cambiava più di tanto il senso, perché dubito che una app a un certo punto dica a qualcuno, guarda, morirai tra due mesi, ma ho desistito. Di fatto so che, se la app ci azzecca, ho circa trentuno anni di vita davanti. Non tantissimi. Neanche pochi, ma non tantissimi. Ecco, credo che se mai, giunto che fossi a ottantacinque anni, dovessi aver memoria dell'esatto giorno in cui è arrivato il momento di lasciare quello che il maestro Franco Battiato chiamava il "transito terrestre", sempre che nel mentre il post-umano non abbia preso piede e una certa tendenza all'eternità non si sia fatta da ipotesi a dato di fatto, circondato dai miei affetti e anche da una buona quantità di amici è in un posto come questo che vorrei ritrovarmi, ottimo cibo, ottimo vino, ottima accoglienza, spazi eleganti e musica come si deve a fare da sottofondo (nonostante abbia nove anni più di me, se la app ha previsto diversamente, magari ancora quella dell'ottimo Claudio Sanfilippo, ormai ultranovantenne). Non perché io preveda che a ottantacinque anni sarò meno punk di quanto non sia adesso, e comunque anche adesso passare serate come queste mi aggrada eccome, né perché è vero il famoso detto "si nasce incendiari e si finisce per diventare pompieri", tutt'altro, ma proprio perché ritengo che in una città che corre veloce, spesso senza guardarsi troppo intorno sapersi fermare, abbassare il volume, prendersi il proprio tempo sia oggi come oggi una vera piccola rivoluzione. Come canta Caparezza in Ti fa stare bene "Voglio essere superato come una Bianchina dalle super auto, come la cantina dal tuo superattico, come la mia rima quando sfugge l'attimo. Sono tutti in gara e rallento, fino a stare fuori dal tempo. Superare il concetto stesso di superamento mi fa stare bene". Ho scritto un pezzo che ha messo insieme Guy Debord e Caparezza, Claudio Sanfilippo e Nicholas Hawksmoor, il Nebbiolo rosé spumantizzato e Daniel Day Lewis, Giò Ponti e il Laghet de Milan, direi che ho esagerato. Posso sputare la cannuccia, i saluti li faccio digitando con le mani sulla tastiera, quel che deve essere sarà.