Avete presente la foto scattata al termine del decisivo summit di Sharm-el-Sheikh, quello che ha consolidato il piano di pace per la Striscia di Gaza presentato dagli Stati Uniti di Donald Trump e accettato da praticamente mezzo mondo? Ci sono tutti i leader presenti all'evento, oltre 20 (Giorgia Meloni compresa, unica donna), tra cui loro: i grandi capi del gotha del Medio Oriente. Ci riferiamo al “padrone di casa”, il presidente dell'Egitto Abdel Fattah al-Sisi, e al turco Recep Tayyip Erdogan ma soprattutto al trio composto da Sheikh Tamim bin Hamad Al Thani, Sheikh Mansour bin Zayed Al Nahyan e Prince Faisal bin Farhan, a sostituire Mohammed bin Salman. Chi sono? Rispettivamente gli emiri di Qatar e Emirati Arabi Uniti, e il ministro degli Esteri dell'Arabia Saudita a fare le vedi del principe ereditario Mbs. Questi signori, rappresentanti del mondo arabo, dell'islam e delle popolazioni musulmane più ricche e influenti del Medio Oriente, hanno mezzo faccia, firma e soldi – tanti soldi – nell'accordo di pace per la Striscia di Gaza, nonché nella tregua tra Hamas e Israele. Perché lo hanno fatto? Ci sono varie e molteplici ragioni che approfondiremo più avanti. Prima di tutto è però doveroso farsi un'altra domanda: perché noi – inteso come Europa – non lo abbiamo fatto al posto loro? Certo, in Egitto c'era anche Meloni, ma l'Italia ha giocato un ruolo marginale in confronto alla partita diplomatica disputata da Turchia, Arabia Saudita e governi del Golfo.
I Paesi arabi - Arabia Saudita in testa, seguita da Qatar e Emirati - si sono fatti avanti perché oggi più che mai vogliono sedersi al tavolo dei vincitori, non subirne le decisioni. Hanno mezzi finanziari enormi, influenza politica crescente e soprattutto un interesse diretto: stabilizzare la regione per proteggere i propri investimenti e rafforzare il loro ruolo da mediatori tra Israele e il mondo musulmano. In gioco non c'è solo Gaza, ma l’assetto dell’intero Medio Oriente post-conflitto. L'Europa, invece, si è presentata spaccata, con leadership indecise, vincolate a Washington e incapaci di proporre una visione autonoma. Così, mentre Parigi, Roma e Berlino si limitavano ad “assistere”, le monarchie del Golfo e Ankara stringevano accordi e mettevano soldi veri sul tavolo. È il riflesso di un equilibrio che si sta spostando: meno Europa protagonista, più Medio Oriente attore centrale. Il sogno di queste petromonarchie - aggiungiamoci anche Egitto e Turchia che però non rientrano nella categoria - è molto semplice da spiegare: diventare potenze regionali consolidate per poi avere sempre più influenza internazionale.
Il caso più curioso riguarda l'Arabia Saudita. Nel libro Ingolfato. Come l'Arabia Saudita ha comprato lo sport (66th) il giornalista inglese James Montague racconta la vita 2.0 del Regno. Nel corso dell’ultimo decennio, infatti, sotto la guida bin Salman, Ryadh è uscita da quasi un secolo di autoisolamento per riposizionarsi come nuova Terra promessa. Grazie alle ingenti somme di denaro investite per comprare e controllare lo sport – dal calcio alla boxe, dall'automobilismo al tennis, dal golf agli e-sports – far crescere il turismo e imbastire così un'articolata strategia di soft power, i sauditi hanno acquisito influenza e, al contempo, si sono ripuliti l'immagine da qualsiasi accusa del passato (violazione dei diritti umani in primis). Oggi Mbs esercita un'enorme attrazione politica e pure diplomatica, è un interlocutore delle cancellerie internazionali e, per certi versi, piace anche all'opinione pubblica. Insomma, per chi non se ne fosse ancora accorto l'Arabia Saudita non è più un attore silenzioso confinato nel deserto, ma un protagonista globale capace di dettare l'agenda politica, economica e mediatica dopo aver trasformato il potere del denaro in un'arma di legittimazione internazionale. E noi? Ci attacchiamo al caz*o. Come sempre, più o meno.