Sono, da tempi non sospetti un pacifista di scuola Ghandiana. Ho sposato in pieno la visione della “colomba” Hrant Dink, il giornalista turco di origini armene profeta del dialogo turco-armeno, assasinato dai “Lupi Grigi” e, qualcuno dice, da frange deviate di quello “stato profondo” tanto animato in Turchia. Pasolinianamente mi metto in ascolto e difendo la possibilità anche dell'avversario di poter dire la sua, combatto da sempre per il dialogo, chiedo spazio anche in modo scomodo per uscire dal coro. L'invasione da parte dell'Azerbaigian dell'autoproclamata pacifica repubblica dell'Artzakh (nome armeno del Nagorno-Karabagh) fa insorgere però anche nel più pacifista dei pacifisti una serie di dubbi. Il premier armeno Pashinian ha fatto quello che ogni pacifista di buon senso e ogni statista consapevole della debolezza militare del proprio Paese (probabilmente per lui vale la seconda opzione) avrebbe fatto. Calare le brache. Con un'azione lampo di 24 ore gli Azeri foraggiati grazie ai loro idrocarburi anche dall'Italia sono entrati come un coltello nel burro del fragile territorio a maggioranza armena “regalato” dai sovietici cent'anni fa per portare nella propria orbita il mondo turcofono e riconquistato a fine '900 con una garibaldina rivoluzione civile (immaginate come nel nostro '800 contadini e pastori armati in qualche modo scendere dalle montagne nottetempo e prendere il possesso delle sedi istituzionali del proprio Paese) dopo la dissoluzione dell'impero sovietico.
Sono stato sei volte in Artzakh, ho vincoli profondi con quella terra e i suoi abitanti. Sono stato nelle trincee di Agdam, la città fantasma conquistata dagli armeni per impedire agli azeri di tornare verso le loro montagne. Ricordo bene due posizioni: una dei fieri militari e patrioti armeni certi che avrebbero una volta in più scacciato dal proprio Paese il “serpente” azero, l'altra di chi diffidava addirittura del governo armeno, troppo debole e troppo asservito alla politica russa e aveva paura, tanta paura, di un possibile ritorno degli azeri. Affamati da oltre 9 mesi di chiusura dell'unico corridoio che univa l'Artzakh all'Armenia, il giorno dopo una stravagante apertura del valico di Lachin, gli azeri hanno invaso il territorio conteso. A differenza dell'Ucraina non ci sono in Artzakh terre rare. Neppure petrolio e giacimenti di diamanti. C'è “solo” una cultura millenaria che rischia di essere per sempre spazzata via dalla furia vandalica. E 120 mila persone che stanno scappando con ogni mezzo per raggiungere l'Armenia, così apparentemente vicina ma tanto lontana su quelle strade di montagna.
Vi ho spiegato perché – in poche parole – i peacekeeper russi sono rimasti a guardare, mentre strane cisterne piene di carburi entravano dalla Russia nel territorio azero, rivenduti dagli azeri – non sottoposti a embargo. Pecunia non olet, petroleum non olet. Troppo tardi Pashinian si è affidato agli americani, pochi giorni dopo gli azeri hanno invaso il Karabakh, portando avanti l'antico progetto “panturchico” per un grande stato turcofono che vada dal Mediterraneo al Caspio. Turchia, Azerbaigian, Turkmenistan. In mezzo l'incomoda Armenia e gli ancora più incomodi cittadini dell'Artzakh. Personalmente questo mondo mi piace sempre meno. E non riesco a restare indifferente davanti a questo genocidio e agli sfollati Karabagzi. Mi chiedo; se fossi stato al posto di Pashinian avrei calato le braghe? Ma resistere senza certezze sapendosi vittime sacrificali non è semplice. Forse i governanti ucraini questo rischio lo avevano calcolato meglio. Non tiro fuori il fucile e tantomeno divento guerrafondaio, ma una ferita come quella dell'Artzakh brucia anche sulla mia pelle. E allora ci rifletto. E vi invito a fare lo stesso.