Nel Sudest asiatico la terra ha tremato, e il bilancio umano è catastrofico. Migliaia di morti, città devastate, edifici sprofondati nel nulla. Ma ciò che più inquieta è che tutto questo era stato previsto. Non in senso vago, ma nei dettagli: luogo, dinamica, magnitudo. Eppure nessuno, o quasi, apparentemente ha fatto nulla.
Il terremoto del 28 marzo in Myanmar, di magnitudo 7.7, ha risvegliato una faglia antica e temibile: la Sagaing, “di tipo trascorrente destro”, che “si muove a una velocità di 1,8 centimetri all’anno” e che rappresenta, come riporta il Corriere della Sera, “la sutura orientale dello scontro tra la placca indiana con quella euroasiatica e quella della Sonda più a sud”. Una faglia talmente nota da essere già stata al centro, nel 2011, di uno studio pubblicato su Geophysical Research Letters. Gli autori, i geologi Nobuo Hurukawa e Phyo Maung Maung, parlavano chiaro: “Un futuro terremoto di magnitudo di circa 7,9 è atteso in questa zona”. Ed è esattamente lì che si è spalancato l’inferno.
Come è potuto accadere, allora, che un disastro tanto annunciato si sia tradotto in una tragedia di questa portata in termini di vite e distruzione? Il geologo Mario Tozzi, in un’analisi su La Stampa, chiama in causa fattori geologici e umani: “La distruzione a lunga distanza può trovare una spiegazione nella costituzione geologica del sottosuolo della capitale thailandese, fatto quasi esclusivamente dei sedimenti delle alluvioni del fiume Chao Phraya”. Sedimenti instabili, sciolti, sabbiosi. Terreni che, quando scossi, si squagliano come “pasta dentifricia”, e “possono inghiottire strade e case”, generando crepacci e crolli anche a 1.300 chilometri dall’epicentro, come accaduto a Bangkok.
Il fenomeno è noto ai geologi: si chiama “liquefazione delle sabbie”, ed è ben documentato in eventi passati, come il sisma del 1985 a Città del Messico o quello emiliano del 2012. Ma ancora oggi, sottolinea Tozzi, “non si scelgono materiali idonei, non si procede alla zonazione sismica, si dimenticano gli eventi del passato”. Il risultato è che gli edifici crollano non solo nei pressi dell’epicentro, ma anche in zone lontanissime, come scheletri fragili privi di fondamenta.

Fabio Florindo, nuovo presidente dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, intervistato sempre su La Stampa ha definito il suolo colpito “come un secchiello che un bambino ha riempito di sabbia bagnata e scosso”. E avverte: “Potrebbero esserci altre scosse per mesi”.
Florindo si sofferma poi sull’Italia. “Siamo una zona a rischio, ma con l’edilizia antisismica possiamo fare molto”, afferma. “Abbiamo una mappa di pericolosità precisa, conosciamo le accelerazioni massime stimate, e ogni ingegnere deve costruire attenendosi a queste stime”. Tuttavia, la cultura della prevenzione resta ancora un nervo scoperto, soprattutto in un Paese dove la memoria sismica è selettiva e intermittente.
Tozzi insiste sul punto: “Affrontare gli eventi naturali diventa più complicato in quelle regioni del mondo in cui la memoria fa difetto e la cultura non si costruisce”. La sua è una critica durissima, e non solo rivolta all’Asia. È un monito che tocca anche noi. Non si tratta solo di geologia, ma di etica pubblica, di lungimiranza civile.
Perché le faglie non spariscono. Caricano energia silenziosamente magari per secoli. E poi, d’un tratto, si rompono. Come a San Giuliano di Puglia nel 2002. Come nel centro Italia nel 2016. E proprio per questo, scrive Tozzi, “lo studio delle lacune sismiche è importante quanto quello delle faglie attive”. Quelle zone che non si muovono da troppo tempo, e che per questo sono le più pericolose.

Il Myanmar, devastato da una scossa che gli scienziati avevano segnalato da anni, ci impone una riflessione: “Le catastrofi – ricorda Tozzi – sono elementi di discontinuità spazio-temporale cicliche, come la svolta drammaturgica nella tragedia greca o il deus ex machina”. Sono eventi che smentiscono ogni idea lineare di progresso. La seconda “lacuna sismica” identificata da Hurukawa e Maung Maung si trova nel Mare delle Andamane, e potrebbe provocare uno tsunami devastante nel Golfo del Bengala. Non è questione di “se”, ma di “quando”. Lo sappiamo. La domanda, allora, non è più “possiamo prevederli?”, ma: siamo pronti a crederci davvero, e a fare qualcosa prima che succeda di nuovo?
