Donald Trump è carico di adrenalina. L'accordo di “pace” firmato tra Israele e Hamas è stato sponsorizzato dagli Stati Uniti e lui, il tycoon, si è già attestato tutti i meriti del caso. E però, per una guerra congelata da aggiungere alle altre sei che Trump ritiene di aver fermato, c'è il rischio che, proprio per volere di The Donald, possa scoppiarne un'altra. Avete visto cosa succede tra Usa e Venezuela? Sembra una barzelletta che la prima potenza del mondo si metta a minacciare un Paese mega inflazionato, sull'orlo del baratro economico e assolutamente innocuo, tanto dal punto di vista militare quanto da quello geopolitico. Nell'era di Trump, invece, succede anche questo. Succede che Trump abbia messo una taglia da 50 milioni di dollari sulla testa del leader venezuelano Nicolas Maduro, socialista, amico di Cina e Russia, ma per niente in grado di creare problemi seri a Washington. Succede anche che gli Usa abbiano inviato navi da guerra, sommergibili e unità militari nel Mar dei Caraibi per attaccare barche (più o meno) sospettate di appartenere a gruppi di narcotrafficanti venezuelani intenti a trasportare carichi di droga verso gli Stati Uniti. Il Venezuela ha risposto mobilitando truppe costiere, milizie, rafforzato pattugliamenti navali e uso di droni per sorvegliare le sue acque territoriali, denunciando minacce di regime change e accuse infondate.
Ma per quale motivo, mentre la Russia minaccia la Nato, la Cina preoccupa il Pentagono e in Medio Oriente il dossier Israele ha incendiato l'intera regione, gli Stati Uniti dovrebbero mai fare pressione sul Venezuela, o peggio, rischiare di far scoppiare un conflitto in America Latina? Il narcotraffico è solo una scusa. La stessa Dea ha più volte spiegato che il ruolo di Caracas nel traffico di droga è marginale. E allora cosa c'è in ballo? Il controllo di una regione ricca di risorse che fanno gola agli Usa ma che negli ultimi anni hanno preso la strada di Mosca e Pechino. Detto altrimenti, in quella che un tempo veniva definita “cortile di casa degli Stati Uniti”, e cioè l'America Latina, le radici di Russia e Cina sono sempre più profonde. I due nemici di Washington hanno stretto accordi con vari governi locali, dal Venezuela al Brasile, dalla Colombia all'Ecuador. È soprattutto il gigante asiatico a destare preoccupazione tra i falchi del Congresso Usa. Già, perché Xi Jinping, zitto zitto, ha trascinato nella Nuova Via della Seta la maggior parte dei Paesi locali; acquista carne, soia, mais e petrolio da chi un tempo era il principale partner di Washington; consegna milioni di auto elettriche riducendo i margini di guadagno delle aziende a Stelle e Strisce; porta avanti cooperazioni spaziali e culturali; e intende pure plasmare il futuro delle infrastrutture locali, a partire dal Canale di Panama. Troppo per Trump che ha deciso, tra una sparata sulla Groenlandia e una sull'Iran, di mettere in chiaro chi comanda in America Latina.
Il Venezuela è dunque l'anello debole dell'America Latina, il punto X sul quale Washington vuole battere per fare breccia nel radicato sistema di cooperazione sino-russa, ormai insediata a pochi passi dal confine americano. Washington continua a dichiarare che userà tutti gli strumenti di potere (anche militari) per fermare il flusso di droga verso gli Usa, ma sappiate che il narcotraffico non c'entra un caz*o. Insomma, inutile fare finta di niente, dietro alla retorica della lotta alla droga sbandierata da Trump si nasconde un disegno ben più ampio: ristabilire l'egemonia americana in un continente che gli Usa non controllano più. Il Venezuela non è solo un problema “di sicurezza”, ma un campo di battaglia per risorse, influenza e prestigio geopolitico (Vladimir Putin e Xi Jinping sono avvisati). Se oggi si parla di barche cariche di coca, domani si parlerà di “missioni di pace”, e dopodomani di democrazia da esportare. Ma alla fine, come sempre, saranno i nuovi equilibri di potere a indicare la rotta del mondo...