A un certo punto è entrato il freddo, Nick Cave cantava Into my arms, la bara è stata sollevata e, sopra le spalle dei portatori, ha attraversato la navata centrale della cattedrale di Torino: la bandiera della Juve che pendeva, la gente che piangeva. È diventato tutto, improvvisamente, vero.
Luca Beatrice se n’è andato nel suo stile: veloce, diretto, senza troppi discorsi. Come viveva. Come scriveva. Io, di Luca, ne scrivo solo adesso perché nelle prime ore e nei primi giorni dopo la notizia non mi usciva fuori niente: troppo scosso, troppi casini nella testa da rimettere in ordine, troppa retorica sulle pagine dei giornali. Nessuno, infatti, ha detto che Luca Beatrice, più di qualsiasi altra cosa, era un meraviglioso, intelligentissimo, adorabile cazzaro. Uno dei più grandi cazzari che abbia mai conosciuto. E lo amavo, lo amavano, per questo. Le donne della sua vita, Elisa, i suoi figli. Tutti.
Lavoravo a Riders, un giornale di moto e lifestyle. Mi inoltrano poche righe: “Sono Luca Beatrice, critico d’arte, presidente del circolo dei lettori di Torino, ma soprattutto motociclista e juventino, e vorrei scrivere per voi”. Aveva già diretto una Biennale criticatissima ma mandava una mail da collaboratore semplice. Lo chiamo. Non abbiamo più smesso di sentirci. Era il 2007. Ha scritto per tutti i giornali che ho girato e diretto: Urban, ancora Riders, poi Moto.it, e quando gli ho parlato che stavo fondando un nuovo giornale mi ha subito detto: “Ci sono”. Perché Luca Beatrice non poteva ancora credere in MOW ma credeva in me. Grazie, vecchio mio.
Per il numero 69 di Riders decidemmo di dedicare tutto uno speciale al sesso e porto lui, una fotografa, Chiara Mirelli, e Sara, una mia amica avvocata, in uno dei più esclusivi club scambisti di Italia, sul lago di Bracciano. Luca e Sara avevano il compito di scrivere un reportage, l’esperienza vissuta dalla prospettiva maschile e femminile. Dopo la cena, si spengono le luci e tutte le coppie cominciano a imboscarsi. Io e Chiara Mirelli ci preoccupiamo del servizio fotografico. Luca e Sara, mai conosciuti fino a quella sera, spariscono. Tempo dieci minuti e li ritrovo su un divanetto di una sala buia a limonare. Quando lo rivedo gli dico: “Cazzo, Luca, non hai perso tempo”. E lui: “Per scrivere bisogna vivere. Sono come Hunter Thompson”. Racconto questo episodio perché in quel periodo Luca era single e perché, quando ho letto della sua morte, è stata la terza cosa a cui ho pensato. La terza.
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In Sex, uno dei suoi libri, citava Pussypusher, una fanzine che avevo realizzato con Banhoff e Thorimbert. C’erano solo foto di vagine, poesie, un racconto. E poi la sua prefazione: un elogio della fica, un capolavoro. Sono andata a rileggerla: “Dedicato a chi pensa che la cosa più bella del mondo sia addormentarsi col suo sapore tra le labbra e risvegliarsi con lo stesso odore appena evaporato nel sonno. Il sigaro lo accendo dopo”. In un’altra prefazione, per un racconto su Virginia, mia figlia disabile, attaccò così: Moreno Pisto è osceno. Nel senso che tendevo a raccontare ciò che gli altri invece sono più propensi a nascondere. Vero. Come sto facendo adesso con lui.
Stella, la sua di figlia, nel discorso fatto in chiesa ha ricordato: “Ognuno di voi qui presente l’avrà sentito dire almeno una volta: io ho ripopolato l’Italia”. Con me, avendo anche io 4 figli come lui, utilizzava il “noi”. Quando trovai la forza di separarmi lo chiamai. Mi incitò: “Faranno di tutto per farti sentire in colpa. Non cedere. Vai avanti”. In quel periodo ogni tanto mi chiamava solo per sincerarsi che non avessi mollato. Me lo ripeteva ovunque ci vedessimo: “Non cedere. Hai ceduto?”. No Luca. “Bravo!”. E ci abbracciavamo. Questa frase è stata la seconda cosa che mi è venuta in mente quando ho letto della sua morte. La seconda. Luca mi ha dato coraggio in uno dei periodi più delicati della mia vita. Grazie anche per questo, vecchio mio.
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La vita incasinata ci univa tantissimo. Guardando sua moglie Elisa e la mia compagna Marta, durante un pranzo, mi disse un’altra delle sue frasi che mi avrebbe ripetuto spesso: “La moglie giovane dovrebbe essere stabilita per legge. Così l'uomo resta produttivo, si aggiorna”. E rideva. L’ultimo regalo che mi ha fatto è stato farmi passare una giornata con Toni Thorimbert. Al funerale di Luca, io e Toni, ci siamo andati insieme. Toni e Luca li ho presentati io. La foto che la famiglia ha scelto per ricordare Luca l’ha scattata proprio Toni. Il cerchio si è chiuso.
Finita la cerimonia, io e Toni abbiamo camminato a braccetto, due vecchietti in giro per Torino, ci siamo fermati a mangiare un pezzo di pizza e di focaccia ligure, sempre parlando delle uniche cose che contano: la vita e la morte. Pensando ai discorsi dei figli di Luca durante la funzione gli ho chiesto e mi sono chiesto: e io cosa lascerò ai miei? Luca ha trasmesso le sue passioni: la Juve, la lettura, la scrittura, l’amore per l’arte. Quando parlavano del loro padre ogni tanto mi sentivo chiamato in causa: anche io porto i miei figli, seppur piccoli, a vedere film da grandi al cinema. Anche io li porto allo stadio. Anche io ho trasmesso l’amore per la lettura e la scrittura ad Agata.
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L’ultima volta che ho visto Luca è stato a ottobre, a Pietrasanta. Gli ho chiesto se sarebbe diventato direttore del MAXXI. E lui mi ha detto non lo so, ripetendomi un’altra delle sue frasi: “Se mi chiamano vado. Alle nomine politiche non si può dire di no”. Come al solito aveva un maglione sdrucito, un paio di jeans, le Blundstone, il sigaro in una mano e con l’altra teneva il figlio Giovanni. Quando parlava di lui i suoi occhi avevano un guizzo. È scatenato, mi diceva. Ne era orgoglioso. In chiesa, la figlia Giulia, ha detto che attraverso l’amore che Luca dava a Giovanni stava un po’ facendo rivivere l’infanzia anche a loro, agli altri figli. Capisco benissimo ciò che intende, perché grazie alla mia Anita, che ha 3 anni e mezzo, mi sta succedendo la stessa cosa. Molte cose si ricordano, ma quando i figli crescono, sono molte di più quelle che si dimenticano: la voce da bambini, i modi dire, i piccoli giochi che fate insieme. Però, la magia, è che qualcosa rimane. Magari non è il ricordo, ma è la sensazione. Giovanni ha solo sei anni e suo padre gli mancherà. Tantissimo. Ma anche a Luca mancherà Giovanni. Ecco, Giovanni: lui è stato il primo pensiero che mi è venuto in mente quando ho letto della morte di Luca. Il primo.
Dopo essere tornato a Milano e aver salutato Toni ho scritto a Chiara Mirelli. Anni fa, sempre lei, durante la fiera delle moto di Verona ci scattò una foto mentre ci abbracciavamo. Le ho chiesto se poteva recuperarla nel suo archivio e mandarmela. Poi ho chiamato mia figlia Agata, le ho raccontato del funerale e le ho chiesto: cuzzola, quando morirò io lo leggerai un discorso? E cosa scriverai? Lei mi ha risposto: “E chi lo sa”. Giusta risposta. Chi lo sa. Ieri mattina, poi, mi sono svegliato e ho visto la notifica. Era Chiara: “Sono tornata fino al 2016 e finalmente le ho trovate. Guarda come eravate belli”. Più che un abbraccio tra di noi era Luca che abbracciava me. Era Luca che proteggeva me. Ho cominciato a scrivere e ho pensato: caro Luca, è proprio vero, si vive e si muore alla stessa maniera. Veloce, repentini, senza sovrastrutture e senza troppi discorsi. E il sigaro, il sigaro, continueremo ad accendercelo dopo.