Nel risiko della finanza italiana, dove ogni pedina ha il peso di miliardi e ogni mossa scatena reazioni a catena tra Francoforte, Trieste e Roma, si sta giocando in queste settimane una partita dalle implicazioni strategiche complesse e potenzialmente dirompenti. Al centro, lo scontro tra Unicredit e Banco BPM, due colossi bancari con visioni divergenti sul futuro e una posta in palio che va ben oltre i bilanci: il controllo degli asset gestiti, il posizionamento nel mercato europeo e, come sempre, l’egemonia nei salotti buoni della finanza italiana.
Il cuore del problema: il “Danish Compromise”
Per comprendere il nodo attorno al quale si avvolge questo scontro, bisogna partire da un tecnicismo normativo che sembra uscito da un manuale di alchimia contabile: il cosiddetto Danish Compromise. In breve, si tratta di una deroga normativa che consente alle banche di non dedurre integralmente dal capitale regolamentare (Cet1) il valore di certe partecipazioni assicurative o di gestione del risparmio, evitando così un impatto negativo sul proprio indice di solidità patrimoniale. Una gentile concessione contabile, insomma, nata per agevolare fusioni e integrazioni tra banche e società di asset management. Solo che questa volta, né la Banca Centrale Europea (BCE), né l’European Banking Authority (EBA) hanno voluto concederla.
Lo scontro tra i titani
Il Banco BPM, guidato da Giuseppe Castagna, ha deciso di andare avanti nell’OPA su Anima SGR — una società leader nella gestione del risparmio — anche senza il beneficio del Danish Compromise. In una nota congiunta, il presidente Massimo Tononi e lo stesso Castagna hanno dichiarato: «Il cda ha espresso oggi, all’unanimità, il proprio motivato convincimento sulla forte valenza strategica e finanziaria dell’operazione Anima e ciò a prescindere dal trattamento prudenziale legato al Danish Compromise» (Milano Finanza, 27 marzo 2025).
Eppure, la BCE ha espresso chiaramente la sua posizione: «Quando un gruppo acquista una società di asset management, la partecipazione deve essere consolidata e il goodwill deve essere dedotto dal capitale, quindi senza beneficio del Danish Compromise» (Milano Finanza). Tradotto: niente sconti, e una penalizzazione patrimoniale potenziale di un miliardo di euro per BPM.
Anche l’EBA ha respinto la richiesta, giudicandola fuori dall’ambito del questionario Q&A ricevuto e rinviandola a una valutazione più ampia e approfondita. L’OPA di BPM su Anima, dunque, diventa improvvisamente un carico pesante da portare, e rischia di rendere la banca meno attrattiva sul mercato.

Orcel colpisce (senza muoversi)
A fiutare l’occasione è stato Andrea Orcel, l’amministratore delegato di Unicredit, che già da tempo osservava con sospetto le mosse dell’istituto rivale. Dopo il "no" della BCE, Orcel ha dichiarato con tono beffardo: «Avevamo ragione noi a considerare l'offerta su Bpm escludendo Anima vista le incertezze. Come noto tale offerta ha caratteristiche che potrebbero aumentare, mantenere inalterato o diminuire il valore di Bpm e che ci riserviamo di valutare…» (Dagospia).
In una nota ufficiale diffusa a mercati chiusi, il banchiere ha rincarato la dose: «La posizione della Bce conferma la congruità del premio implicito nell'offerta di Unicredit per Bpm [...] È ragionevole ritenere che questi sviluppi possano avere implicazioni negative per il rendimento del capitale allocato da Banco Bpm all'acquisto di Anima e per il capitale regolamentare - Cet1 - della stessa Bpm» (Milano Finanza, 27 marzo 2025).
In altre parole: noi il nostro prezzo lo abbiamo già messo sul piatto — con un premio del 15% rispetto al mercato — e se le condizioni cambiano in peggio, siamo pronti a fare un passo indietro.
Il messaggio politico (e l’ombra di Generali)
Ma lo scontro non è solo economico. Ha implicazioni politiche, strategiche e perfino personali. Come riporta Dagospia: «Il Mes di Giorgetti ha recapitato un bel messaggio a Unicredit: la valutazione dell’insostenibile Golden Power sull’Opa di piazza Meda su Bpm arriverà il 30 aprile! Come dire: caro Orcel, vediamo come ti comporterai il 24 aprile all’assemblea per il rinnovo di Generali».
Sullo sfondo, infatti, si gioca una seconda partita, quella per il controllo di Generali, il Leone di Trieste, dove Orcel possiede già un 10% e potrebbe risultare l’ago della bilancia tra i due schieramenti in guerra: Nagel-Donnet da una parte, Caltagirone-Milleri dall’altra. E come se non bastasse, entra in gioco anche Alessandro Benetton, che con il suo 4,25% e le mire su Fiumicino attende il placet governativo per la terza pista.

L’Opa è politica (e strategia)
Nel frattempo, Banco BPM prova a rassicurare il mercato, promettendo un ritorno sull’investimento (ROI) di almeno il 13% e una crescita dell’utile per azione superiore al 10%. «Forte del contributo di Anima, questo gruppo è ben posizionato per raggiungere il target di utile al 2027 di 2.150 milioni di euro», spiega il consiglio (Milano Finanza). Inoltre, la banca ha aumentato il payout ratio all’80%, portando a oltre 6 miliardi le risorse da distribuire agli azionisti entro il 2027.
Ma il punto è: quanto reggerà questa narrazione se il capitale di vigilanza (Cet1) dovesse davvero scendere, come teme Orcel?
Epilogo (provvisorio)
Al momento, siamo di fronte a uno stallo alla messicana: Unicredit aspetta, osserva e lascia che siano i vincoli regolatori e le scelte (azzardate?) del rivale a consumarne la solidità; Banco BPM rilancia, ostenta fiducia e promette dividendi e strategia di lungo periodo. Ma il prezzo, in ogni senso, potrebbe essere altissimo.
Il 24 aprile, all’assemblea di Generali, si giocherà una partita che sarà decisiva anche per capire se Orcel passerà dalle parole ai fatti. E il 30 aprile, con la valutazione del Golden Power da parte del governo, avremo forse la risposta alla domanda più cruciale: chi davvero guida oggi la finanza italiana? Chi muove le pedine? E chi sa aspettare che l'avversario si faccia fuori da solo?
