Mattinata assolata in via Affogalasino. Si va in cerca di arte a Roma, ma lontani da Colosseo e Cappella Sistina. Clacson e traffico appena alle spalle, proseguiamo giù da via del Casaletto. Mentre fioccano i primi scorci di verde appare questo hangar metà laboratorio artistico e metà “galleria”. Le virgolette sono dovute e parlando con Massimo Scrocca, fondatore di Varsi Art&Lab, capiremo perché. Passi ancora lenti, caffè e cornetto. Sullo sfondo rumoretti di scotch e c’è chi sposta scaffali, mentre si accendono le macchine della serigrafia. “Abbiamo appena smontato l’allestimento dell’ultima performance. Un delirio, ma è andata alla grande”. Di che si tratta? “Di Gnole (“legno” in modenese): un artista a cui siamo molto affezionati, Alberonero, si è fermato nella pianura modenese per sette anni e ha vissuto il ciclo di alcuni pioppi fino alla loro decadenza, producendo poesie, pittura, performance. Ha raccontato tutto qui da noi, e a partire dalla sua voce Frenetik&Orang3 hanno creato i bit che sono diventati musica per la sua narrazione, mentre Studio Cliché ha lavorato sulla parte visual”. La storia di Varsi arriva da lontano, da quello spazio vicino a Campo de’ Fiori che gli addetti ai lavori definirono per convenzione “galleria moderna”. Nel progetto c’era già tutto il background di Massimo, cresciuto tra graffiti romani, la casa editrice della madre e un’esperienza nella street art londinese. “Nel 2010 il mondo underground era in fermento, noi siamo nati in quel contesto. Però non volevamo essere una galleria statica e abbiamo iniziato con il lavoro installativo: ogni mostra aveva la sua installazione, in modo da entrare fisicamente nell’opera dell’artista".
"Così ogni mese lo spazio si stravolgeva e questa cosa attirava, perché ai romani devi sempre dare novità. Poi una giornalista del New York Times ci inserì in una guida che scandiva le giornate degli americani a Roma attraverso percorsi non convenzionali. Il programma era serratissimo e loro lo rispettavano alla lettera. Alle 18.00 del venerdì la guida consigliava di passare da noi e alle 18.00 in punto gli americani si presentavano a frotte. Ovviamente alle 17.55 eravamo tutti pronti al loro assalto. Da lì continuavano verso la tappa seguente, che era una panineria a pochi passi da noi”.Tre anni fa il trasloco qui, dove nel giugno dell’anno scorso si è svolta la festa per i dieci anni. “Ma Varsi potrebbe essere ovunque. Di base è uno spazio laboratorio, adattato di volta in volta alle residenze artistiche, agli eventi, alla vendita. L’etichetta di galleria che il mercato ci aveva messo addosso ci stava stretta e abbiamo creato questo polo dove convergono varie realtà già in rete tra loro. Siamo uno spazio ultra contemporaneo, che fa un lavoro di ricerca contemporaneo con artisti che si sono evoluti dalla scena street art. A parte Varsi, qui lavorano lo studio di serigrafia “56 Fili”, il progetto di legatoria “She Lab” e quello di design “Base 34”. Proprio accanto a noi c’è anche il coworking “Ala 34”, ormai parte integrante del progetto. Interazione e crescita comune, per un’unione di artisti e artigiani che stando così a contatto possono migliorare la produzione e stare assieme come una famiglia”.
Funziona così: si sceglie e si invita l’artista, che si sposta qui per una residenza durante la quale, sperimentando, si producono le opere. Che poi saranno vendute principalmente sul web. “Abbiamo sviluppato questo canale di vendita durante il covid, quando pensavamo che saremmo arrivati ai titoli di coda. Invece quel periodo è stato esplosivo e oggi l’80% del fatturato lo facciamo con il nostro shop online”. Il risultato delle produzioni si può toccare con mano, dentro un laboratorio ormai invaso dalla luce: serigrafie su materiali come carta e legno, libri d’arte in serie limitata, arredo e oggetti di design. Ma anche apparel: camicie e giacche da lavoro che diventano pezzi d’arte. “L’artista progetta, noi stampiamo e per il ricamo e i lavori di sartoria ci affidiamo agli artigiani”. Che circuito si innesca così? “Sicuramente un collezionismo giovane, fatto di investimenti per il futuro a prezzi ragionevoli. Vendiamo anche le opere già prodotte dai singoli artisti: le teniamo qui per un tot di mesi e le mettiamo in vendita rispettando i “dogmi” di questo mercato”. Deontologia artistica. A proposito, che considerazione c’è di voi nell’ambiente? “Siamo apprezzati perché abbiamo mantenuto la nostra originalità e non frequentiamo i salottini dell’arte. E questo ce lo riconoscono anche gli stessi artisti. Manteniamo, con trasparenza, un dialogo aperto e rispettiamo l’estetica di ogni creativo, senza cercare di influenzarlo”. Cos’è l’indipendenza per voi? “Quella economica, innanzitutto. Ci sentiamo liberi di investire nei progetti che vogliamo. E poi anche la ricerca la impostiamo a modo nostro, percorrendo le strade in cui crediamo. Certo, con un occhio sempre a quello che succede attorno a noi. Ma non ci snaturiamo soltanto perché qualcosa si vende bene”.
Com’è questa città per chi fa un lavoro simile? “A Roma non è cambiato niente, c’è poca attenzione verso questo tipo di patrimonio culturale e verso questi luoghi. Ad Atene, ad esempio, succede il contrario: si dà linfa ad un circuito che, comunque, i guadagni li porta”. Come? “Affidando gli spazi a realtà come la nostra, realtà che si autosostengono e creano valore aggiunto attraverso l’arte. Roma è strapiena di spazi abbandonati: non chiediamo di certo di darli via così, ma con apposite gare è possibile”. Un altro tema è la riduzione dell’impatto nell’uso dei materiali, voi come siete messi? “Abbiamo fatto uno studio sui pacchi per le spedizioni. Non c’è niente di male se metti un’opera, anche costosa, dentro lo scatolo di un televisore. Inoltre, invece degli smalti sintetici usiamo colori ad acqua e lavoriamo molto con carte riciclate”. Prossimi appuntamenti? “Il 16 febbraio facciamo un open studio dell’ultima residenza con Matteo Giuntini. Presenteremo le serigrafie, l’apparel e i pezzi unici che abbiamo prodotto insieme”. Prima di andare, stavamo per dimenticare giusto un dettaglio, cosa significa “Varsi”? “È un omaggio a mio padre, scriveva romanzi sulla Roma antica e si firmava così. Ah, e poi di recente ho scoperto che in finlandese significa braccia. E qui di braccia ne servono eccome…”.