Quando si cerca di essere tutto per tutti, si rischia di non essere abbastanza per nessuno. È la lezione che Porsche, icona tedesca dell’ingegneria su quattro ruote, sta imparando nel modo più duro, come riporta un approfondito articolo del Wall Street Journal. Poche auto evocano lo stesso brivido della Porsche 911, lanciata nel 1964, con il suo profilo inconfondibile e un'aura mitologica paragonabile a Ferrari F40 o Lamborghini Miura. Ma oggi, anziché brillare, Porsche sembra un equilibrista in crisi d’identità, sospesa tra l’ambizione di essere Ferrari e la necessità di essere competitor di Mercedes-Benz.
Il problema? “Il 61% delle auto consegnate da Porsche nel primo trimestre erano Suv, non auto sportive”. È quanto evidenzia il WSJ, ricordando che la metamorfosi da costruttore di bolidi a produttore di massa è iniziata nel 2002 con il Cayenne e ha accelerato nel 2014 con il Macan.
La contraddizione irrisolvibile: lusso o volume?
Il settore dell’auto di alta gamma si divide in due filosofie: da un lato, i brand che vendono sogni esclusivi (Ferrari, Lamborghini, Hermès), dall’altro chi produce in grandi numeri mantenendo il lusso accessibile (Mercedes, Bmw). Porsche ha cercato di fare entrambe le cose: costruire oggetti del desiderio come la 911, ma anche Suv "democratici", meno redditizi e molto più esposti alla concorrenza.
E il mercato punisce l’ambiguità. Mentre le azioni di Ferrari sono salite dell’8% nel 2024, quelle di Porsche sono scese del 21%. La strategia del “tutto e subito” ha finito per confondere clienti e investitori.

La gabbia delle tariffe e il miraggio cinese
In un mondo frammentato da guerre commerciali, negli States Porsche paga a caro prezzo la sua origine europea. A differenza di Mercedes e Bmw, che costruiscono Suv direttamente negli Stati Uniti, Porsche importa tutti i modelli – compresi i più economici – dalla Germania. E non può sempre trasferire sui clienti i dazi imposti dall’amministrazione Trump.
Ma c'è di più. Porsche ha “sbagliato puntando a diventare elettrica all’80% entro il 2030, sedotta dal mercato cinese” Così scrive il Wall Street Journal, ricordando che la Cina – un tempo promettente – oggi si sta rivelando un boomerang: nel terzo trimestre del 2022 Porsche ha spedito 28.085 veicoli nel Paese asiatico; nel primo trimestre del 2024, solo 9.471. Il Taycan, punta di diamante elettrica, ha venduto appena 4.203 unità globali nello stesso periodo.
Una matrioska aziendale che confonde
A complicare ulteriormente lo scenario c’è il fatto che Porsche non è realmente indipendente. È controllata al 75% da Volkswagen, che a sua volta è sotto il controllo della holding delle famiglie Porsche e Piëch. Una struttura che, per usare un eufemismo, non favorisce decisioni rapide e visioni chiare. Il Ceo di Porsche è anche quello di Volkswagen, e i Suv del marchio di Stoccarda condividono piattaforme con modelli ben più “popolari”.
Ferrari, al contrario, è un’isola sovrana. Pur essendo legata alla famiglia Agnelli (il presidente è John Elkann), gode di autonomia totale e resta devota al culto dell’esclusività. Persino il suo Suv, la Purosangue, è limitato al 20% della produzione annua, e i pochi veicoli ibridi plug-in in circolazione sono protetti da strategie intelligenti di mantenimento del valore, come la sostituzione delle batterie dopo otto anni tramite abbonamento.

Una via d’uscita c’è?
Eppure, qualcuno a Wall Street mantiene la fede. Porsche ha chiuso il trimestre con margini ante imposte del 13%, e c’è chi attribuisce le difficoltà a errori tattici – “essere arrivata tardi a capire che marchi come Xiaomi avrebbero schiacciato i rivali occidentali in Cina”, per esempio – piuttosto che a problemi strutturali.
Il management non resta immobile: si prepara a tagliare il 15% della forza lavoro e a tornare a investire nei motori a combustione. Ma la vera questione resta aperta: può un marchio del lusso mantenere la propria aura quando vende asset destinati a perdere valore, come Suv ed Ev?
“Non so se Porsche possa o debba abbandonare questa mentalità”, afferma Philippe Houchois di Jefferies.
Il rischio, conclude il Wsj, è finire con valutazioni simili a Bmw e Mercedes (P/E a una sola cifra), mentre Ferrari continua a brillare con un multiplo di 47 volte grazie a un’identità feroce e incontaminata.
La parabola di Porsche ci racconta una storia antica come il capitalismo: quella di chi vuole mangiare a due tavoli, ma finisce per perdere il posto a entrambi. L’identità, quando si tratta di lusso, non è una variabile: è l’unica costante. E se la 911 è ancora un sogno su ruote, il resto del garage comincia ad assomigliare più a un compromesso che a un capolavoro.