Credo che la compagnia indie A24 abbia nel suo eterogeneo catalogo, tra pochi titoli brillanti e molti riempitivi, i cosiddetti film che ti devono piacere per forza – soprattutto se sei Millennial o della gen. Z – quelle opere che se non piacciono a qualcuno è solo perché quel qualcuno non le ha capite, non perché effettivamente sono deteriori. Dalla Berlinale posso dirvi che A Different Man diretto da Aaron Schimberg è tra i fiori all’occhiello della A24 e uno dei titoli bomba di quest’anno, seppur appena iniziato (devono ancora essere distribuiti gli Oscar). Ma andiamo con ordine. Un aspirante attore, Edward (Sebastian Stan) affetto da neurofibromatosi si sottopone a una cura per cambiare aspetto, ma la pièce teatrale basata sulla sua vita e presentata sui palchi dell’Off Broadway faranno letteralmente impazzire l’uomo, portandolo a una vera ossessione nei confronti dell’attore che lo interpreta Oswald (Adam Pearson, affetto davvero da neurofibromatosi). È un thriller dai risvolti grotteschi, che ti strappa la risata cinica, che condivide quell’ironia caustica di Cose molto cattive e Crimen Ferpecto e che apparirà, a chi si pone con dei pregiudizi, un film superficiale con una potenza di fuoco debole nella sua denuncia sociale. Ma qui l’unico j’accuse, se ce ne fosse uno, è nei confronti di questo clima di inclusività forzata d’accatto che non fa altro che ottenere, nella realtà di tutti i giorni, una reazione uguale e contraria nella sua manifestazione violenta. Edward, che pare “the elephant man”, capisce troppo tardi come la società non ci metta un attimo ad appropriarsi dei problemi altrui pur di monetizzare, educare e fare la morale al prossimo e rubarti l’unica cosa che hai: la tua identità.
Abbiamo una sola identità e nell’epoca del deep fake, dell’intelligenza artificiale e dei finti attivisti da social sarà meglio tenercela stretta prima che qualcuno usi le nostre vite per sensibilizzare gli altri. Edward lo capisce troppo tardi: s’innamora della vicina di casa Ingrid (Renate Reinsve presente a Berlino anche in Another End) non cogliendo l’interesse della donna per la sua storia, lasciandosi depredare emotivamente e fornendole, in questo modo, tutte le coordinate che servono a Ingrid per scrivere un’opera su di lui. Potrebbe essere visto come un film che coglie la differenza tra come noi ci percepiamo rispetto agli altri e cosa gli altri vedono di noi, ma Schimberg suggerisce che, forse, la realtà riposa nello scarto tra le due cose. Edward non c’è più, c’è Guy, ma in realtà il protagonista si è perso o, per meglio dire, lost in translation tra chi dovrebbe e chi potrebbe essere. Ora ha un lavoro di successo, vive in una bella casa – a differenza della precedente con un buco sul soffitto – e può avere le donne che vuole, ciononostante Edward è uno sfigato. Oltrepassando i contorni della propria pelle, Edward rimane comunque uno sfigato, senza praticare il lavoro che ama, l’attore, o avere la donna che vuole, Ingrid (e questo dovrebbe essere di lezione per tutti i redpillati in ascolto o in lettura). A Different Man ci insegna che non possiamo cambiare se non in peggio, di come nessuno sia realmente totalmente buono o cattivo, e l’escalation di follia e violenza inaspettata nella seconda parte del film non fa che confermare i toni demenziali che solo la realtà può regalarci, più del cinema. Tra le pieghe di questo body horror si nasconde un’ironia degna di Woody Allen (i detrattori del film non ne hanno colto il potenziale comico) come quella geniale battuta di una serie da noi dimenticata, Murphy Brown: “Dio mi ha chiesto di sedermi per poi togliermi la sedia”. Edward è come noi, noi siamo Edward, e tra noi e la felicità c’è sempre un Oswald di mezzo.