Nelle ultime settimane si è parlato, tra le altre cose, qui tocca ogni volta surfare tra argomenti di varia natura, di fiabe. Lo spunto, per altro come sempre travisato a uso social, il discorso che Paola Cortellesi ha fatto alla Luiss di Roma, che toccava le fiabe in un breve passaggio, il discorso parlava ovviamente d’altro, e per altro aveva chiari intenti comici, quello è il mondo dal quale la Cortellesi arriva. Sia come sia, il mondo delle fiabe è stato per qualche tempo al centro dell’attenzione, tra pandori e false recensioni, dando modo a molti di spiattellarci in faccia le proprie conoscenze a riguardo. Il fatto che nei mesi precedenti se ne fosse parlato per le note vicende della cancel culture e di una visione un filo distorta dell’inclusività, a uso della Disney, ha reso il tutto solo ancora più caotico. Di fatto ora, grazie agli esperti del web, possiamo tutti convenire che le fiabe siano metafore, che in realtà in origine erano molto più violente di quanto Disney coi suoi film a cartone animato ci ha mostrato, e che no, non erano sessiste (va detto che ho sofferto nel constatare che nessuno ha citato il cult per adulti Biancaneve e i sette ne*ri, forse non sufficientemente inclusivo e politicamente corretto per finire nel dibattito pubblico). Il fatto che i fratelli Grimm fossero un filo sociopatici nell’approcciare la materia fiaba, o che Andersen finisse sempre per parlarci della sua omosessualità tenuta nascosta lo hanno detto quelli che hanno le carte per farlo. Io so solo che, anni fa, mi sono magicamente trovato con la mia famiglia a passare del tempo esattamente dentro una delle fiabe in questione, e il fatto che io vada a raccontarvelo, mi spoilero da solo, di colpo ammazzerà questa premessa per passare a parlare d’altro. Premessa: viaggiare ci permette di incontrare e scoprire luoghi che non conoscevamo. A volte, nel caso in cui si viaggi verso luoghi già conosciuti, ci permette di vedere come siano cambiati. O se, conoscendoli solo tramite qualcosa che ci è capitato sottomano, un libro, un film, un documentario, per vedere se coincidano con quanto ci eravamo mentalmente ricostruiti. Questo lasciando da parte la faccenda del viaggio che è il viaggio e non la meta, verissima ma che infilata ora nel discorso non farebbe che complicare il tutto (e poi risulta comunque un po’ usurata, come la frase di Voltaire sul dare la vita per difendere il diritto di chiunque di dire quel che si vuole, anche quello che ci sta sul culo, Voltaire la diceva un filo diversamente, ma tant’è).
Per dire, io ero convinto che la Polonia, terra che non ha mai avuto particolare attrattiva nei miei confronti, fosse una landa piatta e priva di vegetazione, qualcosa di non troppo diversa dal concetto di “tundra”, dico concetto perché la tundra è parte delle mie nozioni scolastiche, non credo che la riconoscerei se la incontrassi di persona, che sta lì, da qualche parte nel baule delle mie conoscenze scolastiche, appunto, senza che io abbia mai avuto modo in vita di confrontarmici. Lo credevo, suppongo, per certe immagini di quando ancora la Polonia gravitava nell’orbita sovietica, immagini spesso in bianco e nero, cupe e assai poco rasserenanti, lungi da me tirare in ballo i campi di concentramento, lì la cupezza era sicuramente parte del contesto storico, a prescindere dal paesaggio, e lo credevo perché la narrazione che ha sempre accompagnato la Polonia è stata di una terra desolata, resa arida da una storia interna fatta di invasioni e soprusi, da Hitler a Woody Allen, passando per Wagner. Figuratevi quindi la meraviglia quando, pensando a un viaggio in famiglia, mia moglie ha buttato sul tavolo l’idea di fare tappa nei Monti Tatra, specificando che sono montagne di cui le aveva sentito parlare non so quale collega e che si trovano in Polonia, al confine con la Slovacchia (il collega è di lì, come parte di coloro coi quali si interfaccia mia moglie). Mai sentiti nominare, ignoranza mia, e soprattutto mai saputo che in Polonia ci fossero montagne, le ho detto, scoprendo come in effetti la medesima narrazione che aveva contribuito a costruire il mio immaginario aveva contribuito a costruire il suo.
Il fatto è che se si decide di fare un viaggio che vada da Budapest a Berlino, passo al presente per questioni di contemporaneità, la vicenda è avvenuta prima del Covid, Budapest e Berlino, dicevo, questi i due estremi del cammino, in una sorta di ideale Gran Tour che ci siamo prefissi di fare anno dopo anno, non si può non passare di lì, o almeno, non ha senso non passare di lì, anche perché, appunto, i Monti Tatra sembra siano piuttosto belli da visitare. D’obbligo, poi, una tappa a Cracovia, città che, sempre a livello di immaginario, è una sorta di roccaforte cattolica oltre quella che un tempo veniva chiamata la Cortina di Ferro, luogo che richiama alla mente pellegrinaggi e la storia di Papa Wojtila, ma è dei Monti Tatra che si parla qui. Ci arriviamo da Budapest, dove abbiamo soggiornato alcuni giorni, facendo una tappa a Bratislava, in Slovacchia, appunto. La scelta di passare di lì non è obbligata, esiste anche una via più diretta, che taglia direttamente verso nord, ma passare da Bratislava comporta sì allungare il percorso, ma anche farne un buon tratto in autostrada, e comunque, ripeto, la faccenda del viaggio che è il viaggio e non la meta non trova ospitalità in queste righe ma è pur sempre vera. Ora, immaginate di andare a un appuntamento al buio. Avete un orario e un luogo, ma sapete poco altro. No. Esempio sbagliato. Perché in un appuntamento al buio suppongo entrino comunque in campo fattori che hanno a loro modo un peso, proprio quel senso di sorpresa che il non sapere chi si va a incontrare prevede, senso di sorpresa comunque circoscritto dal fatto di aver fissato in qualche modo un appuntamento al buio usando come tramite una persona che ci conosce, questa immagino sia più una scena da film, o una di quelle app che vanno per la maggiore a riguardo, app che per quanto manipolabili presenta comunque profili e foto. Diciamo che è un po’ come la prima volta che si affronta un videogioco, stiamo passando a un nuovo livello e non abbiamo obiettivamente idea di cosa ci aspetti di qui a qualche secondo. Così è Zakopane per noi. Una incognita che speriamo sia una bella sorpresa e non un mostro infernale che ci farà in mille pezzi, game over. Qualcosa sappiamo, ma ci mancano di fatto i dettagli fondamentali e comunque i metri di paragone. Abbiamo trovato un albergo a Zakopane, che stando a quel che si trova online è una specie di Cortina d’Ampezzo dei Monti Tatra, solo con prezzi decisamente più abbordabili. Cosa significhi essere Cortina d’Ampezzo in Polonia è il tassello che ci manca, e converrete che non è un tassello irrilevante, la faccenda del guercio che in un paese di ciechi è il solo a vedere qualcosa è magari un po’ tirata per la giacchetta ma rende abbastanza l’idea. Per me, l’ho già detto, la notizia che in Polonia ci siano delle montagne, tali da poter ospitare il corrispettivo polacco di una Cortina d’Ampezzo è già sufficientemente sconvolgente, non mi sembra il caso di star qui troppo a sottilizzare.
Sia come sia arriviamo a Zakopane che il cielo si sta facendo bruno, prima però che sia necessario usare i fanali dell’auto per illuminare la strada. Lo spettacolo che ci accoglie è incredibile, e onestamente nulla che richiami alla mente Cortina d’Ampezzo ci si manifesta davanti agli occhi. Le prime case che ci si parano davanti sono in legno, ma non hanno la tipica forma delle nostre case di montagna, sembrano piuttosto quelle casette in miniatura che un tempo si usavano per farci giocare le bambine, un tempo quando appunto era possibile scrivere una frase del genere senza essere accusato di patriarcato, per farci stare dentro le bambole. Forse, e dico forse solo per creare un minimo di suspense, perché in realtà sono sicuro di quanto sto per affermare, le casette in questione sono più simili a quelle che un tempo avrebbero abitato le favole che vi venivano raccontate, quelle di marzapane di Hansel e Gretel, per capirsi, non ricordo bene ma credo anche quelle di Pollicino. Casette fatate, questo sì, dalle forme dolci anche laddove presentano spigoli e guglie, rifinite davvero con lo stesso gusto con cui i nostri genitori, in genere le mamme, rifinivano i dettagli delle fiabe, la lezione orrorifica e matriarcale di Angela Carter ben lontana da essere stata appresa (scusate, ma lei è la grande assente dal dibattito sulle fiabe dei giorni scorsi, non ho capito bene perché). Un continuo incontrare casette del genere, e anche definirle casette non è preciso, perché seppur con la forma delle case delle bambole in realtà le costruzioni sono grandi, tali da poter comodamente essere abitate da intere famiglie. Un villaggio incantato, così ci appare Zakopane, sempre che questa sia già Zakopane. Perché la faccenda di Cortina d’Ampezzo non me la sono inventata mica io, l’ho letta da qualche parte, presumibilmente nei commenti di Tripadvisor, commenti che erano in buona parte positivi, anche riguardo la struttura che abbiamo scelto. In effetti, iniziata una discesa, tipica discesa di montagna ce porta a un piccolo avvallamento che poi presenta una altrettanto tipica salita, qualche traccia di un turismo alpino la troviamo, alberghi non dico di lusso, siamo nei Monti Tatra, ma quantomeno contemporanei, post-caduta del muro, villette in muratura, ristorantini più o meno turistici. Sebbene le case delle fate fossero decisamente più consone a un viaggio che debba fare i conti con un immaginario inaridito, vedere quegli alberghi ci rasserena, come se di colpo ci fossimo svegliati in casa nostra. Risveglio in realtà momentaneo, e anche fallace, perché presa la salita quella fugace traccia di civilizzazione, sempre che siamo noi quelli a essere civilizzati e non le fate, scompare, lasciando spazio non più alle casette di marzapane, cioè legno, quanto piuttosto al nulla. Montagne corredate di montagne, e basta, dove per montagne si intende prati verdi pascolati da mucche e poco altro. Qua e là qualche casolare, ma niente che richiami a una reale presenza di vite umane, almeno recente, di quando cioè gli uomini hanno preso a camminare su due gambe perdendo la coda. E dire che, stando al nostro navigatore, dovremmo quasi essere in procinto di incrociare il nostro albergo. Ecco in effetti un gruppo di abitazioni, lì sulla destra, in cima a una salita. Abitazioni illuminate, addirittura. L’albergo, questo dice Google Maps, si trova in fondo a una piccola strada a sinistra, evidentemente nell’avvallamento. Strada che però non esiste.
Vado avanti, pensando si tratti di un piccolo errore topografico, ma per circa mezzo chilometro non incrociamo strade sulla destra, e il navigatore, impazzito, ci dice di tornare indietro. Cosa che in effetti facciamo, tornando esattamente al punto iniziale, le case, che stavolta sono alla nostra sinistra, e il niente a destra. Cioè, l’avvallamento si trova, ma senza una strada. Un grande prato verde, direbbe Morandi. Fermo la macchina e entro in quello che mi sembra essere un locale, un ristorante, un pub, qualcosa del genere. Porto con me il cellulare e anche un foglio su cui è appuntato il nome della struttura che abbiamo prenotato. Il tipo che sta dietro il bancone mi ascolta, non saprei dire se capendo esattamente cosa sto dicendo, poi guarda il cellulare e, in sequenza, il foglio. Poi mi dice che l’albergo è chiuso, non c’è più. Immaginatevi un sottile senso di panico. Giusto miscelato da una buona dose di stanchezza. Siamo nel bel mezzo dei Monti Tatra, in quella che avevamo letto fosse il corrispettivo polacco di Cortina d’Ampezzo ma che in realtà sembra la parte vicino alla segheria di Twin Peaks e il barista cui sto chiedendo informazioni, è sera, saranno le venti, mi dice che l’albergo che abbiamo prenotato non esiste più. Lo guardo atterrito, e credo che almeno questo lui lo capisca bene. Infatti si spiega meglio, e mi dice che non è l’albergo a non esistere più, ma quella strada. In effetti non ve ne è traccia. Ci dice che per arrivare alla posizione indicata dal navigatore dobbiamo ritornare indietro, dove c’erano gli alberghi occidentali, e da lì risalire per l’altro pendio, arrivandoci da un’altra strada. Me lo dice in una lingua non convenzionale, ma capisco e mi rincuoro. Quindi salgo in macchina e spiego la situazione al resto della famiglia, che nel mentre sta reclamando la cena. Li rassicuro, è tardi, ceneremo in albergo. Seguo pedissequamente le indicazioni del tipo, torno indietro, imbocco la strada che dovrebbe portarmi all’albergo e zac, ecco che lì, in una stradina sterrata a bordo della strada principale, si trova il nostro albergo. Albergo, si trova il nostro alberghetto, una struttura in legno, ovviamente, piuttosto piccola, come una villetta a due piani. Completamente buia e senza neanche una macchina parcheggiata davanti. A questo punto mi lascio andare a un po’ di sano sconforto, direi che è in linea con gli accadimenti. Parcheggiamo, lasciando la macchina accesa, così a illuminare l’ingresso dell’albergo, nella più totale oscurità. L’idea che in effetti si tratti di struttura ormai chiusa si fa largo in noi, anche perché la porta è in effetti chiuso, e non ci sembra di vedere intorno a noi segno recente del passaggio di anima viva. Vedo nello sguardo dei miei figli un certo timore, anche se dentro di me ho ovviamente già pensato al piano B, tornare nella zona degli alberghi moderni e affittare lì un paio di camere, rifacendomi a tempo debito su Booking. Solo che mi sembra davvero assurdo che un sito così gettonato abbia potuto accettare la prenotazione di un albergo in realtà fuoriuso. È vero che il pagamento era previsto sul posto, fatto che avrebbe potuto dar adito a qualche dubbio, tanto più che in Polonia non è corrente l’euro, ma resta che ho prenotato neanche due mesi fa due camere in un albergo che al momento si presenta deserto. Facciamo un ultimo tentativo, e nel mentre saranno circa le nove di sera, noi siamo senza stanze e anche senza aver cenato, in un posto di montagna dove, suppongo, a quest’ora anche i ristoranti saranno tutti chiusi.
Chiamo il numero che era indicato nella prenotazione, tanto per avere ulteriore conferma dello stato dell’arte, e zac, ecco che dall’altro capo del telefono, un telefono che immagino sia di quelli grigi, con ancora i numeri che si fanno facendo roteare un cerchio con il foro per infilarci dentro le dita, mi risponde una voce femminile, che mi spiega dove sono le chiavi, quali sono le camere e mi chiede anche per che ora domattina vogliamo fare colazione. Siamo i soli ospiti dell’albergo, che si rivela davvero delizioso. Tutto in legno, e su questo ci avrei scommesso anche una cifra ingente, con le stanze che si trovano al primo piano, col tetto a spiovente che rende l’ambiente più caldo e accogliente. Ci sistemiamo in due delle tre camere, ma avremmo potuto pure strafare e occuparle tutte, io, mia moglie e i gemelli in una, nostra figlia e nostro figlio grandi nell’altra.
Il tempo di lasciare le valige che è già il momento di risalire in auto, diretti verso un ristorante, visto che qui di mangiare non se ne parla. Torniamo verso la parte moderna del paese, chiamiamola così, e scopriamo che nel mentre i pochi ristoranti hanno chiuso. Stando a Google Maps non ce ne sono di aperti in zona, figuriamoci se ci può mai essere un supermarket o un luogo dove comprare del cibo. Ho una intuizione, quando ormai due ore fa sono entrato nel locale dove il tizio inizialmente mi aveva fatto capire che l’albergo era ormai in disuso, ho visto che c’era una specie di pista da ballo, lì in mezzo a mobilio in legno. Se si balla, magari, c’è anche modo di mangiare qualcosa. Resta solo da capire come riuscire a tornare fin lì, e visto che ormai è tutto buio è davvero difficile capire come fare. Metto nel navigatore l’indirizzo dell’albergo, e quello, magicamente, mi indica il percorso sbagliato, quello con la strada ormai chiusa, di fronte a quel locale. Arriviamo, quando sono ormai le nove e mezza di sera, e scopriamo che non solo si può mangiare, ma c’è in effetti una festa danzante in puro stile western, non saprei dire esattamente perché. Mangiare ascoltando musica locale è un ulteriore tocco di magia, in fin dei conti, alla fine tutto si è allineato nella maniera corretta.
L’indomani visitiamo il paesino alla luce del sole, e di fate non se ne vedono. Si vede invece un bellissimo luogo montano, la passeggiata che facciamo dentro il Parco nazionale che porta il nome dei monti è davvero incantata, anche se la mia natura di intellettuale si trova più a suo agio quando non devo entrare in affanno perché costretto a camminare in salita nonostante i chili in sovrappeso. Per pranzo decidiamo di tornare verso il paese, perché abbiamo visto che c’è una specie di sagra, in una zona non troppo distante dal nostro albergo. In realtà è più una lunga fila di ristorantini in legno, tradizionali, e di bancarelle finalizzate a piazzare in casa dei turisti cianfrusaglie di cui si pentiranno ai primi freschi autunnali, il tutto, va detto, per pochi euro (noi, per dire, abbiamo comprato uno zaino a forma di panda, probabilmente fatto da un bambino cingalese sfruttato e malpagato). Pochi euro che spendiamo per mangiare salsicciotti neri di fegato e bistecche immagino di vitello, hamburger giganteschi e patate al forno cotte con ancora intorno la buccia, il ristoratore che finge di non avere da cambiarci gli euro e in qualche modo ci scippa, sempre che si possa dire scippo pagare un pranzo abbondante per sei neanche trenta euro. Zakopane si dimostra un posto di quelli da raccontare una volta tornati a casa, e nel quale ritornare, magari per starci qualche giorno a riposo, i trenta euro di cui sopra sono anche la cifra spesa per le due camere d’albergo. Del resto, partendo, grazie al navigatore, sempre lui, rischiamo di passare qui decisamente più tempo, perché seguendo una strada piuttosto immaginaria ci ritroviamo a inoltrarci per quello che si dimostrerà essere un campo pieno di fango, a salvarci un anziano contadino col suo cane che, in perfetto zakopanese, ci spiegherà che quella non è una strada e che non è mai bene fidarsi troppo dei cellulari, specie da queste parti. Ci attende Cracovia, la città dei pellegrini, anche per questo lo salutiamo ringraziandolo per l’aiuto, e per averci regalato le sue parole sante. Tutto è bene quel che finisce bene, verrebbe da dire, sembrava un luogo abitato da streghe o orchi cattivi, di notte, e invece era un paesino incantato, sì, ma nel senso di bello, incantevole. Forward, Dio mio che concetto obsoleto, e arriviamo all’oggi.
Giorni fa esce su Netflix una nuova serie crime, Detective Forst. Mi serve qualcosa da lanciare come sottofondo mentre scrivo, parto con la prima puntata. La scena si svolge in montagna, c’è neve, e un cadavere in qualche modo avvinghiato a un traliccio, nudo, in una posa singolare. Non seguo molto, sto appunto scrivendo, ma ogni tanto getto l’occhio allo schermo. Sembra qualcosa di cupo, la neve, i colori tra azzurro e grigio, una certa violenza lasciata intravedere. C’è anche del sesso, se non ho capito male legato alle droghe. Poi una scena si svolge in un locale dove dei tizi stanno suonando musica folkloristica del luogo, altra gente balla. Io in quel locale ci sono stato, mi dico. Aguzzo l’attenzione, a un certo punto qualcuno parla di Zakopane. Quello è il locale dove siamo andati a cena, mi dico, e nel dirmelo lo mostro a mia moglie, che conferma. Detective Forst è quindi un crime che si svolge a Zakopane, sui monti Tatra, nel villaggio di Hansel e Gretel dove ho passato qualche ora, anni fa. Continuo a scrivere, molto distratto dalla serie, che a questo punto tradisce il suo compito di sottofondo, occupando la mia attenzione. È una storia torbida, inquietante. Una Twin Peaks polacca, che vede coinvolti ministri, scenari vagamente lynchiana a base di gente lasciva e mascherata che pratica sesso in locali per ricchi. Zakopane, quindi, è la Twin Peaks europea, penso. Un po’ meno onirica, forse, di quella di Lynch, sono anche passati un fottio di anni e le serie tv sono decisamente cambiate, ma decisamente altrettanto iconica. Il tutto dalla verdeggiante Polonia, che in questa serie poi tanto verdeggiante non è, la neve occupa militarmente la scena, tra cadaveri smembrati e orge, intrighi nell’alta società (la scena nel locale che potrete ammirare nella terza puntata è puro Twin Peaks, neanche Romeo Castellucci della Societas Raffaello Sanzio avrebbe saputo farlo meglio, anche per la voce femminile in tutto e per tutto alla Julie Cruise che qui canta una versione badalamentiana di Enola Gay) e un detective decisamente poco convenzionale. Chissà se il nome del detective a suo modo protagonista della serie, in realtà il vero protagonista è il Male, credo, quello che a questo punto per puro culo non abbiamo incrociato nel nostro soggiorno a Zakopane, chissà se il nome del detective, dicevo, Forst è un neanche troppo velato omaggio a Mark Frost, che di Twin Peaks è stato autore della terza parte, oltre che del prequel Fuoco cammina con me, ovviamente in compagnia di Lynch stesso. Ora torno a vederla, che non l’ho ancora finita, fossi in voi non me li perderei, né la serie Tv, né Zakopane. State giusto lontano dai tralicci e dai locali per scambisti, in caso.