Pubblichiamo in esclusiva un estretto dal libro di Marco Falorni e Andea Fassoni, L'algoritmo Funari (Nfc, 2025). Grazie all'editore per la concessione
*
Dal capitolo 6 – Funari tra trash e politically correct
La finta bonomia, la menzogna al cittadino, la falsa informazione, questa è volgarità.
….
Il suo scopo era infatti attaccare i governanti con un linguaggio volutamente "basso" per farsi capire dal popolo. Quando Morena, l’ultima moglie di Funari, che ha fatto il classico ed è laureata in Lettere antiche e questo Gianfranco ci teneva spesso a precisarlo, tirava in ballo la figura di Aristofane per giustificare alcune parolacce di Funari in tv, Gianfranco rincarava la dose dicendo che i vaffanculo! o gli stronzo! non erano parolacce ma… rutti dell’anima.Nel V secolo a.C. in Grecia il commediografo Aristofane è passato alla storia come inventore di offese capaci di suscitare grande ilarità tra il pubblico.
Al di là delle parolacce, delle metafore e dei racconti che facevano sorridere ma che allo stesso tempo lo facevano sembrare una persona grezza e volgare, dietro ogni scelta linguistica di Funari c’é una strategia di comunicazione, frutto della sua esperienza sui palchi del cabaret.
La parolaccia è indice di disinibizione ».; è una scelta liberatoria, o è soltanto e sempre cattiva educazione?Come ogni uomo di spettacolo, Funari vive per catturare l’attenzione di un pubblico e quindi sa come e quando cambiare registro e quando bisogna esagerare. Negli anni Ottanta ad esempio era molto attento affinché né lui né i protagonisti dello show usassero parolacce perché sapeva che avrebbe scatenato critiche pretestuose da parte dei giornali, del pubblico o della Rai. Fece addirittura una puntata su questo tema «
All’inizio degli anni Novanta fece addirittura le scuse in trasmissione per un vaffanculo sparato il giorno prima. Poi però vedendo che i costumi in generale erano sempre più disinibiti e, sapendo che comunque la parolaccia, oltre a creare ilarità soprattutto tra i ragazzini, era un bel rafforzativo di un’opinione o di una reazione.
….
Praticamente Funari è un teorico delle parole e della parolaccia, in fondo lo fa di mestiere, per far ridere e divertire e soprattutto quando bisogna esagerare. “Vojo mettere un dito nel culo al futuro!” disse a Funari News nel 1993. Oggi sarebbe una frase da stampare su una maglietta e farne un merchandise dei programmi di Funari. Una frase che, se analizzata nel contenuto, non vuol dire assolutamente nulla, come ricorda anche il conduttore radiofonico Matteo Bordone nel documentario Funari, Funari, Funari. Ma è una frase “efficace e che costruisce contraddizioni” e per questo potentissima.
In realtà Funari questa frase la prepara con i suoi collaboratori, uno dei quali patito di musica gli dice che ha letto su una rivista musicale che una band, non ricordo quale, darà un calcio in culo al futuro della musica. Da qui l’elaborazione di Funari che la prima volta dirà “Questa trasmissione metterà un dito nel culo al futuro!”, buona versione ma perfezionabile, quindi Funari ribadirà il concetto con la celebre “Voglio mettere un dito in culo al futuro” che Blob manderà a ripetizione o quasi, ogni sera. Esiste una terza versione sempre da Funari News in cui Gianfranco dirà lo stesso concetto ma in latino. Il repertorio del conduttore romano di quegli anni è infinito: sulla rete potete recuperare momenti cult dove, per esempio, si incazza con un ospite sul tema delle marmitte catalitiche, grande tema di dibattito negli anni Novanta: “ma è obbligatoria o no? Nun me risponde. Allora fatevela voi la trasmissione, vaffanculo, me state a pijà per culo…”. E poi invettive contro lo stato: “per quanto riguarda la merda in Italia ci siamo fino a qui” oppure “questo regime fa schifo” .

La prerogativa di Funari è sempre stata quella di provocare, scavalcare il limite del politicamente corretto ogni qual volta se ne presentava l’opportunità, ma con questo senza mai urtare la sensibilità delle persone: anzi, paradossalmente mettendosi sempre, proprio grazie all’utilizzo di parole forti e di paradossi linguistici, in difesa di quelle che oggi chiameremmo “minoranze”. Memorabile una puntata di Mezzogiorno è… con il momento del venerdì dedicato all’Aboccaperta. Siamo nella stagione 87/88 e il dibattito è sul tema, ancora oggi divisivo, dell’omosessualità. Mezzogiorno, Rai Due, la domanda che irrompe nelle case degli italiani e con cui ingaggia il pubblico è molto semplice: «Accettereste in casa vostra un gay come amico di famiglia»? Da una parte i sì, dall’altra i no. Tra il pubblico si alza la voce di un uomo che non vorrebbe un gay dichiarato in casa. Dice: “i gay sono emarginati perché sono minoranza!” e Funari lo interrompe, con una velocità di parola e di pensiero che andrebbe studiata nei manuali di comunicazione all’Università: “non è vero, per esempio i ricchi che sono la minoranza non sono emarginati”. Game, set, match! Quello che faceva incazzare Funari era il sopruso di chi esercitava il potere con qualsiasi mezzo, fosse politico, economico o persino linguistico. E infatti in un’intervista quando gli chiedono cos’è per lui la volgarità, lui risponde: “È la cattiveria. È l'invidia. È la finta benevolenza. È la meschinità…”. E quando la giornalista de L’Europeo gli domanda cos’è la raffinatezza, risponde: “la gentilezza d’animo, il mettere a proprio agio chi non sta al tuo livello culturale. Io ho sempre parlato col portiere come col politico, mica ho fatto l’arrogante con uno e l’ossequioso con l’altro”. Oggi forse Funari sarebbe contro coloro che usano il politicamente corretto come una bandiera, come un paravento, più che contro il politicamente corretto in sé. Carlo Vanzina, regista dei più noti cinepanettoni italiani ma non solo, in un’intervista al settimanale Rolling Stone ricorda che “spesso il politicamente corretto è un fatto moralistico, che cambia col cambiare delle epoche. Un racconto invece deve durare nel tempo. È sbagliato impostare qualsiasi racconto che vuole durare sul politicamente corretto. Se sei una persona seria, civile, morale, attenta quel tanto che ti serve di politicamente corretto ce l’hai dentro di te”. E Funari lo era.

Dal Capitolo 12 – L’estetica funariana
Non è che a me piace stare davanti alla telecamera ma è la telecamera che je piace riprendere me.
…..
Funari era sicuramente più swag di molti suoi colleghi contemporanei. Senza aver bisogno di indossare felpe larghe o cappellini griffati, ma seguendo un suo preciso stile che evolve molto nel tempo, con una sola costante: l’ostentazione non solo della ricchezza ma del benessere tout court. Le donne, il gioco d’azzardo, le macchine, i vestiti, le cravatte, che ci tiene a precisare in un’intervista a Epoca del febbraio 1993, nel pieno della sua seconda ascesa, “le acquisto quotidianamente, come le sigarette”. Altro vizio che non smetterà mai di avere. L’immagine più iconica di Funari rimane quella di lui con vestito impeccabile e la fedelissima sigaretta sottile stretta tra due dita, accesa o spenta, che ruota o è ferma, non cambia, che lo accompagna nelle sue intemerate televisive contro questo o quel personaggio politico. Funari ha sempre curato la sua immagine e la narrazione della sua storia di pari passo: da bravo “rapper” della tv, ci tiene a ogni intervista a ricordarci le sue origini poverissime, quasi fosse un Notorious B.I.G., (uno dei più celebri rapper degli anni Novanta) in salsa ciociara. In un Funari News del dicembre del 1993 confessa: “spessissimo quando ho votato sono stato sempre angustiato se era giusto votare per quello o per quell’altro. Ma io ho un debole: non mi devono toccare la povera gente perché i poveri sono di razza pura e io, dato che sono nato povero, e ora sono un povero con i soldi, rimango sempre povero perché ho la mentalità del poveraccio. Ho avuto un’infanzia difficile, ho visto i sacrifici dei miei che nun riuscivano a pagà ‘a piggione, che facevano ‘a spesa con i sordi contati e io che facevo mille lire de benzina pe ‘annà a lavoro quando ero rigazzino perché non avevo artri sordi. E facendo mille lire alla volta nun m’accorgevo che s’arzava er costo daa’ benzina…. mi illudevo che non era aumentata”. Poi però comincia la carriera da cabarettista con le prime comparsate in televisione e inizia a inventarsi uno stile non solo di comunicazione ma anche di estetica. Negli anni Settanta compare il sorriso brillante e la sobria eleganza, poi piano piano con gli anni Ottanta appare l’occhiale fumé, la giacca larga e le spille preziose e vistose, ostentate. Un vero cult la spilla d’argento a forma di lucertola che mise un giorno prima di una puntata di Mezzogiorno è… e che non tolse più in quell’edizione, visto che il giorno dopo gli ascolti schizzarono in alto.
Antonio Ricci ricordando gli anni del Derby Club, nella Milano di cinquanta anni fa, confessa che: “Il più sveglio di noi era Gianfranco Funari. Un giorno scopro il suo cachet, il triplo del mio, e gli domando come era riuscito a ottenerlo” Gianfranco con semplicità spiega la sua formula vincente: ‘Mi sono presentato al locale con una macchina cabrio, vestito in un certo modo, una sventola bionda al mio fianco e ho ordinato champagne. Hanno capito quale era il mio stile di vita”. Insomma, per essere un divo, devi avere un’immagine adeguata. Ed è così che farà il conduttore romano, sempre attento a lasciare un’impronta ovunque vada: la notorietà come sappiamo esploderà negli anni Ottanta e i giornalisti gli chiedono: “Piace a Funari essere riconosciuto per strada? Di più: godo. Sono appena passato in un paesino sperduto dell’Aspromonte e una vecchina col grembiule e un solo dente in bocca m’è venuta incontro riconoscendomi e chiedendomi come stavo. È stato come me l’avesse chiesto la mia povera mamma”. Negli anni Funari si avvicina sempre di più al potere politico e allora l’occhiale diventa più sofisticato, memorabile quello con le lenti tonde, e gli abiti sono su misura e di sartoria. È proprio in quel periodo che in un’intervista al settimanale Epoca dal titolo provocatorio “So’ ricchissimo. Embè, che male c’è?”, un po’ come i ragazzini su YouTube che fanno il conto dei soldi indossati con cui abbiamo aperto il capitolo, confesserà; “guadagno dagli otto ai dieci miliardi all’anno, di cui almeno l’80% sono gli introiti pubblicitari. Ma vorrei sape’ anch’io quanti soldi c’ho”. “E quanto spende per l’abbigliamento?” chiede il giornalista intimorito. La risposta è degna di un vero top luxury influencer davanti alla telecamera del proprio cellulare: “Io viaggio senza valigia, non ho tempo per farla. In ogni posto dove vado ho un guardaroba. Acquisto almeno quindici abiti all’anno, confezionati da un sarto di Napoli. Mi costano quattro o cinque milioni l’uno. Le scarpe sono fatte a mano da un artigiano di Parma. Trecentomila lire il paio. Ne avrò una cinquantina”. E qui il genio che si ricorda di quando sua mamma pesava meno di 40 chili durante la guerra e doveva far togliere la fetta di mortadella in più dal salumiere perché non ci arrivava con i soldi: “Le scarpe poi non si buttano. Più ne hai, meno ne consumi”. Poi tornava alla realtà e concludeva: “Sono un personaggio pubblico, cambio vestito e camicia tutti i giorni. Faccia un po’ il conto lei: a me viene 400 milioni all’anno”. Per non parlare della sua vera passione, le macchine: “Ho due Bentley, una classica e una cabrio per i giorni di sole: l’ho fatta costruire su ordinazione, ho potuto scegliere anche la sagomatura del legno e il colore delle viti. È unica in Italia”. Quanto costa, chiede il giornalista quasi imbarazzato: “Mezzo miliardo di lire, 200 milioni in più rispetto all’altra”. Tiè, così ci dice pure quanto ha pagato l’altra auto di sua proprietà. Ma poi, con tono che oggi definiremmo populista, ricorda che: “con la Bentley scoperta andai una volta all’Aventino, in mezzo a uno sciopero contro Berlusconi, allora Presidente del Consiglio, fendendo due ali di folla plaudente. Perché io sono un povero con la Bentley”. Funari amava ricordare che i ricchi hanno il vizio nell’anima, l’indifferenza nello sguardo e la cattiveria nel gesto. Lui invece amava disegnarsi come un Robin Hood catodico.

Funari imperversava in televisione, anche negli altri programmi, per ricordarci come, seppure di umili origini, i soldi li aveva fatti, eccome se li aveva fatti! Viene ingaggiato da Paolo Bonolis su Canale 5 come portavoce in una storica puntata di Ciao Darwin che contrapponeva due categorie dello spirito umano: ricchi contro poveri. Da una parte Gianfranco Funari in rappresentanza dei ricchi: uomini tutti giacca, cravatta e capello perfetto; dall’altra Pasquale Africano, personaggio televisivo noto sul finire degli anni Novanta come usciere nel programma Forum di Rita Dalla Chiesa, in rappresentanza dei poveri: uomini in gilet sgualcito, camicie dai colori improbabili e capelli che forse non hanno mai visto un barbiere. L’abilità di Bonolis, erede televisivo di Funari, fa partire subito il dissing tra le due parti con Funari che dà il meglio di sé: “sono invidiosissimo dei poveri perché sono di razza pura: raramente diventano ricchi. Noi invece possiamo diventare poveri: da qui il mio sorriso melanconico. Ma sapessi come si piange bene in Rolls Royce”.
