Ci eravamo lasciati con Giuseppe Maggio in un teatro, al centro di Roma, a parlare di passato, di un cinema capace di guardarci, del suo debutto sul palcoscenico. Ci ritroviamo a distanza di un anno a nominare la libertà, a parlare di estetica e di linguaggio fotografico. Questa volta al centro dell’intervista c’è Mrs Playmen. Una serie con un cast perfetto (ispirata a una storia vera) sulle avventure di una donna, Adelina Tattilo (interpretata da Carolina Crescentini), in un posto pieno di uomini, in una società in cui i nudi, per molti, erano come campi minati, osceni, profani, ma che si stava affacciando al cambiamento. C'era la rivoluzione, nasceva una nuova parola e un concetto: il 'femminismo'. Nella serie Giuseppe Maggio è Luigi Poggi, fotografo. In un momento storico, gli anni Settanta, in cui le immagini erano ancora capaci di fermare un’epoca, trasformarla nel manifesto di qualcosa. Di una solitudine forse, di uno smarrimento, di una gioia incontrollabile, oppure rappresentavano un modo per compartecipare a una tragedia. Si correva per andare in edicola, fissare i titoli in prima pagina, ripensarci poi e giocare a ricostruirle. Le fotografie. Giuseppe Maggio a MOW: “Oggi il rischio è che molto scivoli via e che non ci sia qualcosa che rimanga realmente, tante sono le immagini a cui siamo sottoposti ogni giorno”. E a proposito di attualità, con l’attore romano (Quattro Metà, Maria, Baby) abbiamo riflettuto anche su una cosa, sulla famosa questione dell’educazione sessuo-affettiva e consenso informato nelle scuole e l’impatto che una serie come questa può effettivamente avere sui ragazzi e sulle ragazze che magari per caso, su Netflix, un giorno, la trovano e la scelgono.
Giuseppe in Mrs Playmen interpreti il ruolo di un fotografo che si chiama Luigi Poggi. Ma tra libri, teatro, cinema, la fotografia è un mondo che ti attrae? Ti è mai venuta la voglia di sperimentare con il linguaggio fotografico?
Il linguaggio fotografico mi ha interessato molto, ricordo che in quel periodo stavo finendo l’università e avevo un esame anche di fotografia cinematografica. Capire e analizzare le inquadrature, le luci, diciamo che tutto quello che ho studiato l’ho in un certo senso utilizzato per costruire il mio personaggio nella serie. È uno sguardo diverso. Quando fai una foto con il telefono non fai caso a tante cose, quando invece hai una macchina fotografica fra le mani, soprattutto un’analogica in cui hai uno scatto singolo e che non vedi poi, stai immortalando quel momento esatto, pensi che quella precisa inquadratura, per dire, sia giusta. C’è un mondo dietro l’analogica, dietro la fotografia stessa, che si basa anche su tanti altri aspetti, tipo la fiducia nel proprio mezzo. Imprimi la tua visione del mondo ed è questa la cosa che più mi affascina. Assomiglia un po' al linguaggio della scrittura, con le dovute differenze. Credo che la scrittura sia più un viaggio nei silenzi, nelle emozioni, mentre la fotografia l’ho vissuta più come un discorso di impatto, di comunicazione di un momento, la decisione di fermare ciò che in quell'attimo ha attirato la mia attenzione.
In effetti oggi per “fermare” un momento, per immortalare qualcosa basta un telefono, il linguaggio fotografico stesso è cambiato a distanza di cinquant'anni, così come il mezzo e l’approcciarsi ad esso.
C’è una battuta nella serie che recita così: “Mi piacerebbe raccontare con la fotografia quello che Pasolini raccontava con il cinema”. Il discorso è sia estetico che contenutistico. La ricerca estetica è una ricerca soggettiva perché ognuno ne possiede una, poi si può scegliere un filone e da quello si sviluppa un discorso contenutistico. Credo che quello di Pasolini, il discorso contenutistico, idealmente, fosse in un certo senso molto vicino a quello del mio personaggio. Voler raccontare una periferia, un mondo che cambia. Certo, siamo in anni diversi, in un momento successivo al boom economico. Playmen è una rivista glamour, non è una rivista di inchiesta o che racconta le periferie. Il mio personaggio nella serie desidera portare con sé quel mondo e inserirlo in un contenitore diverso come quello di Playmen, così come magari Pasolini aveva fatto con il cinema degli anni Sessanta, che era quello de La dolce vita, e lui racconta il mondo di quegli anni che era dietro l’angolo rispetto a Via Veneto, ma che era totalmente opposto. C’è un parallelo molto forte in questo. Nel mio caso, il mio personaggio sceglie la fotografia e usa un mezzo molto più potente di quello che abbiamo noi oggi. Perché l’immagine in quel momento storico era molto più forte, si trattava di una società diversa, tante cose non si conoscevano nel senso che non c’era la stessa possibilità di visione o la stessa diffusione di immagini, di notizie. Ecco, allora una fotografia che racconta una Roma sottoproletaria mostrata in una rivista glamour risaltava moltissimo, oggi invece apri i social e vedi tante realtà anche parecchio lontane e non si avverte lo stesso effetto perché se ne vedono tante, poi certo ci sono delle cose più estreme e forti che continuano, per fortuna, anche a destare scalpore però ce ne sono tante altre che purtroppo, in qualche modo, ci sembrano già viste. A quel tempo invece le immagini non venivano osservate alla stessa maniera ed era lì la loro forza, nel voler mostrare qualcosa di diverso in un mondo patinato. Un tempo se tu volevi comunicare un messaggio e lo facevi in questo modo era certo che un po' rimanesse nella coscienza di chi osservava, oggi invece il rischio è che molto scivoli via e che non ci sia qualcosa che resti realmente nella memoria collettiva, tante sono le immagini a cui siamo sottoposti quotidianamente.
Nella serie la protagonista di questa storia, Adelina Tattilo, spesso viene raccontata dallo sguardo degli altri. Una donna, un personaggio che sembra dover costantemente dimostrare qualcosa. Forse semplicemente perché è una donna che ricopre un ruolo importantissimo. Giuseppe, tu, nel tuo lavoro, ti sei mai sentito come se dovessi dimostrare qualcosa a qualcuno o forse anche a te stesso?
Nella vita mi sono sempre sentito così. Può sembrare un discorso banale, ma ho sempre avvertito il peso delle aspettative, anche quando giocavo a calcio da ragazzino, sul set per un ipotetico discorso estetico. Insomma, ho avuto spesso questa percezione, pur non ricevendola dall'esterno, ma dall’interno. È come se mi fossi autogenerato questa grande aspettativa nei miei mezzi e in me stesso e la cosa drammatica è quando i risultati non arrivano e sei abituato a sentirti dire che magari sei bravo, che puoi fare determinate cose, se passi tutta la vita a sentirti ripetere queste parole, queste frasi, quando non arrivano i risultati c’è una sorta di realtà che ti si manifesta davanti che non conosci e per la quale non hai neanche sviluppato gli anticorpi perché per il mondo, per il tuo mondo, tu sei sempre stato quello che doveva primeggiare e allora è difficile e devi fare i conti con questo. Nel mio lavoro è capitato un'infinità di volte, se prima ne uscivo con le ossa rotte, ora forse riesco a gestire meglio la cosa, ma ti dico che onestamente un po', a volte, questo discorso resta. Per quanto riguarda la serie e il personaggio di Adelina, quello era anche un mondo, un periodo storico in cui, purtroppo, ancora di più una donna che aveva un ruolo di potere e una visione così rivoluzionaria era quasi impensabile, ciò che ha fatto è oggetto di una grande rivoluzione e coraggio.
Per di più in un'epoca in cui muoveva i primi passi il concetto stesso di 'Femminismo'.
Nel libro Adelina raccontava che non era simpatica alle femministe perché alla fine per loro lei metteva una donna nuda in copertina e quindi sosteneva che non riuscissero ad andare al di là di questa cosa, forse non comprendendo che si trattava di quello che lei sembra descrivere come una sorta di 'cavallo di Troia', ossia 'utilizzo qualcosa per attirarti, per metterti nella rete e una volta dentro ti faccio vedere determinate cose, temi, problematiche'. Spiegando dunque che purtroppo, spesso, era necessario mostrare qualcosa che 'luccicava' per attirare l'attenzione, ma una volta colta, presa questa attenzione, ecco in quel momento esatto, far vedere un mondo che magari una determinata persona non conosceva, basta pensare ai vari scandali o ai vari temi trattati nella rivista.
Mrs Playmen racconta di una donna e di un mondo che a lungo è stato un tabù. Il corpo nudo, la sessualità. Ancora oggi in Italia si parla di educazione sessuo-affettiva nelle scuole. Hai un pensiero a riguardo? Ma soprattutto, pensi che una serie come questa possa avere un messaggio particolare su questo tema?
Assolutamente sì, mi viene in mente una scena della serie in cui la Tattilo si trova a parlare con una ragazza che non sa nulla di sesso e si sente in difficoltà o non compresa dal marito. In quel periodo storico molte donne non potevano parlare di sesso in famiglia, era un tabù questo argomento e quindi non conoscevano la sessualità, magari la loro prima esperienza avveniva dopo il matrimonio, erano totalmente ignare di cosa fosse e neanche sicure di loro stesse. Insomma, era una situazione di grande sconforto quella che vivevano. Perché quando tu non sai, non conosci, sei in balia degli altri, e puoi vivere delle insicurezze, in quel caso invece Adelina utilizzò proprio la rivista per parlare della sessualità a delle giovani ragazze per spiegare loro che non si dovevano sentire sole e che soprattutto il mondo della sessualità deve essere scoperto passo per passo e quindi questa scena, se vogliamo, può esemplificare molto la situazione di oggi. Insegnare l'educazione sessuale nelle scuole non è politica, cioè non può avere una connotazione politica secondo me, può avere una valenza però sociale e pratica. Se insegni nel modo giusto che cos'è la sessualità, poi le persone cresceranno con mezzi diversi per relazionarsi con gli altri e con loro stessi. I loro impulsi, i loro desideri, le loro vergogne. Li sapranno affrontare con strumenti diversi. Se tu conosci poi sei libero di pensare, di agire, di relazionarti, hai una tua visione, un tuo spirito critico e ciò ti consente di vivere meglio e di essere più sereno. Se non conosci o sei in balia degli altri o comunque puoi avere una costante insicurezza. Per cui bisogna fare qualcosa che possa aiutare, anche per far capire tante dinamiche e soprattutto perché se non la imparano nel modo giusto (la sessualità, ndr) poi rischiano di impararla nel modo sbagliato, perché oggi il modo sbagliato è facile da intercettare. Basta andare sui social, basta andare sui siti p*rno, e imparano la sessualità in quel modo, che però è un modo sbagliato.
Tornando alla storia e al passato, cosa porti con te dopo questo viaggio negli anni Settanta?
Io sono attratto da progetti come questo e altri a cui ho preso parte anche perché sono attratto dal gusto musicale ed estetico di quegli anni, mi piace molto l’abbigliamento e la cura del dettaglio, nello specifico degli anni Sessanta. L’idea di avere un’identità in qualche modo legata anche a quel periodo storico, è una dimensione che mi appartiene molto anche nel mio privato.