Un’ossessione che si traduce in una serie di telegrammi, one-liners, frammenti, dichiarazioni originali. Un libro folle, un trip che contiene perle di giornalistica esattezza come allusioni complottistiche degne di ByoBlu. Un libro che contiene gli elementi di un enigma irrisolvibile. Quello che gravita attorno al nome trino di Matteo Messina Denaro. L’enigma che da quel 16 gennaio 2023, giorno dell’arresto di Matteo Messina Denaro, ossessiona Simone Rossi, per l’occasione Tito Penn (un Penn-Tito che “vive sotto scorta in un luogo segreto, talmente segreto che dove si trova non lo sa nemmeno lui”). In quel frangente tutti sprecarono termini definitivi per Messina Denaro: l’ultimo dei corleonesi, l’ultimo degli stragisti, l’ultimo boss. Rossi-Penn ne “spreca” molti di più lungo 277 pagine veloci che sono un vortice, un gioco di specchi, una presa in giro, l’enigmistica provocazione di un Bartezzaghi in acido, un guazzabuglio post-moderno che trova nell’episodica risata e nell’altrettanto episodico atto di denuncia la strada più breve per sbertucciare la mafia, lo Stato, i media, l’Europa, la nostra fluida debolezza, la facilità con cui ci facciamo suggestionare o turlupinare. Pagine telegrafiche ma ambiziose, quindi. Molto “hit and miss”, per quanto mai banali. Introdotte anche da Diego Fusaro: “Un testo appuntito e spigoloso, di quelli che urtano la coscienza e lo fanno in modo intelligente e riflessivo”. “Se Messina Denaro – continua Fusaro – ha potuto fare quel che ha fatto, ciò è dipeso in larga parte da coperture e collaborazioni inconfessabili, da sostegni e silenzi, da supporti e omertà”.
Un testo che l’autore fa partire da lontano, non solo dal periodo – siamo in epoca Covid – in cui è stato effettivamente scritto: “Dove sono nato, a Lusurasco, una frazione spersa nella provincia di Piacenza, c’era una bottega di alimentari il cui patron – il negozietto faceva parte di una catena – era un imprenditore di Castelvetrano che venne arrestato nel 2007 e condannato a 12 anni di carcere con l’accusa di essere nientedimeno che il prestanome di Matteo Messina Denaro”. La mafia è anche dove si pensava non sarebbe mai arrivata. “Brescello – continua Rossi – è stato il primo comune dell’Emilia-Romagna ad essere stato sciolto per mafia. Per 30 anni, a Brescello, visse Francesco Grande Aracri, condannato a 19 anni di carcere per associazione a delinquere di stampo mafioso, fratello di quel Nicolino Grande Aracri che voleva addirittura creare nel nord Italia una provincia n’dranghetista autonoma e indipendente da quella di Reggio Calabria”. La mafia, di cui si parla quasi sempre dopo, a tragedia accaduta. O di cui non si parla affatto, come nelle settimane appena trascorse, “quando i media – osserva Rossi – hanno in buona parte taciuto sul più recente capitolo di Rinascita Scott, il più grande processo di sempre contro la ‘ndrangheta”.
Non è un libro sulla mafia, “Matteo Messina Denaro. L’ultimo boss di Cosa nostra” (Edizioni L.I.R.), bensì un libro sull’ossessione per un nome. Evocando Jung, Rossi si chiede e ci chiede: è il caso a scegliere le persone in base al nome o è il nome stesso, in virtù di un suo intrinseco potere magico, a esercitare sulle persone che lo portano un’influenza così potente da costituire una vocazione? Il nome è quindi causa o effetto? Un libro come forma di rigetto verso i media che, quando un nome è caldo, lo ripetono – in modalità muezzin – fino a renderlo fastidiosamente ipnotico. Rossi-Penn compone e ricompone il nome di Matteo Messina Denaro. Lo ripensa. Lo riassembla. Lo trasfigura. “Hanno arrestato Matteo Messina Denaro”, scrive. “Non hanno arrestato il denaro”, aggiunge. Poi toglie solo una “n” e ottiene Matteo Messia Denaro. Quindi la provocazione populista: “La differenza tra i politici e i mafiosi è che ai politici, una volta in pensione, spetta il vitalizio… Mentre ai mafiosi spetta la galera a vita”. E ancora: “È una coincidenza che Messina Denaro si celasse dietro la falsa identità di un certo Bonafede, come l’ex ministro di Giustizia che durante la pandemia scarcerò centinaia di detenuti per reati gravi, tra cui alcuni boss in isolamento al 41-bis?”. Nella successione di telegrammi strutturata da Rossi fanno capolino anche la Crusca che stronca lo “schwa” e il Messina Denaro privato, non più playboy, tirchio e putiniano. Poi si torna seri: “Parla l’ex magistrata: la massoneria lo ha protetto in tutto il mondo” ed ecco che in un attimo, per mantenere viva la teoria del nome come presagio, Denaro diventa Matteo “massone” Denaro. E poi, ancora, “Matteo ‘uno nessuno centomila’ Denaro”. Cercate risposte? Non le troverete in questo simpatico e obliquo “brainfu*k”. Qui, semmai, troverete materia grezza e ironica per crearvi qualche nuovo dubbio. Per entrare e uscire da un’ipnosi, da una fascinazione. Affondando nella magia di un nome – “un nome che solo a sentirlo nominare faceva gelare il sangue nelle vene” – che ha sempre contenuto qualche prezioso indizio per indagare l’enigma di cui si fa titolo.