Qualche giorno fa Benedetta Minoliti ha criticato il libro osannatissimo di Vincenzo Latronico, finalista all’International Booker Prize. Si tratta de Le perfezioni (Bompiani, 2025) e a dire il vero l’unica colpa della collega è stata essere fin troppo gentile. Parliamo di un romanzo dalle fattezze hipster, un modesto tentativo di giustificare montature, baffetti, caffellatte il pomeriggio, fiori secchi tra le pagine di libri usati e tutto il guardaroba socioculturale, quasi antropologico, necessario per essere parte del circolo culturale egemone (parola fin troppo complessa per dire una cosa molto meno oscura: di moda); e titoli medio-novecenteschi, nella speranza di tirar fuori da un libro modesto un successo ben più che modesto. Ma proprio in virtù del successo ottenuto, di fronte a una critica si dovrebbe anche poter andare oltre. Certo è, tuttavia, che soprassedere comporta una notevole dose di menefreghismo che forse, per deformazione spirituale, in quanto scrittore e come scrittore in quanto tale, il Latronico non può permettersi o semplicemente non sa dove cercare. Così interviene e rilancia la nostra gentile stroncatura (anzi, la gentile stroncatura di Benedetta Minoliti) e scrive nelle storie: “Ogni volta che leggo qualcuno parlar male di me mi metto a piangere, mi rotolo sul pavimento, mi graffio, smetto di scrivere per un periodo di tempo indefinito, mi cala l'appetito, fumo di meno, faccio sport, esco a camminare in riva al mare, che tra parentesi sta a meno di trenta metri da casa mia, e chiedo ai gabbiani, i cui antenati si mangiarono i pesci che si mangiarono Ulisse, perché io, perché io, che non ho mai fatto del male a nessuno?”

Tra ironia e mezze verità, in quel contesto iperreale che è Instagram, Latronico si esercita a smettere i panni dello scrittore, del letterato, e per un attimo dimentica il distacco, quell’essere o anarchico o aristocratico che si impone ai grandi, secondo il Rebatet de I due stendardi, e si infogna nella mischia mondano-giornalistica. Purché se ne parli, direbbero scimmiottando Oscar Wilde, anche se crediamo che la storia sui social di Latronico risponda a una necessità meno profana ed economica dello scrittore, e cioè al semplice desiderio di prendere posizione contro una critica. Cosa che, a dire il vero, fanno a diverse latitudini del planisfero culturale molti scrittori dell’ambiente mid-cult. Non troppo tempo fa un novello esordiente come Davide Avolio si riprendeva piangendo per le critiche al suo romanzetto pubblicato per Mondadori, impegnandosi poco dopo a correggere le recensioni negative spiegando per quale motivo la gente sbagliasse a criticarlo. Se avesse dedicato lo stesso tempo a rileggere il suo romanzo prima di andare in stampa, avrebbe evitato le critiche in modo ben più virtuoso, e cioè scrivendo qualcosa di migliore.
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Abbiamo letto “Le perfezioni” di Vincenzo Latronico, candidato all’International Booker Prize, ma com’è? Non sbaglia niente, ma non dice nulla. E no, non basta raccontare la realtà per scrivere un buon romanzo…
Ora, dal pianto metaforico (vogliamo credere sia così) di Latronico al pianto fisiologico di Avolio, quel che ci dice questa tendenza a reagire, che ormai risparmia solo due tipi di autori, quelli troppo bravi (rari) e quelli troppo famosi (comuni), è meno grave di ciò che alcuni, in giornali più seriosi, sosterrebbero (la mancanza di rispetto per la critica); ma è pur sempre qualcosa di tragicomico. La totale assenza di distacco tra libro e “reaction” in un autore fa sì che l’autore somigli sempre di più, come categoria umana, al lettore indignato. Invece di fare gli scrittori, gli scrittori fanno i lettori indignati delle recensioni dei loro stessi lettori, tra cui ci sono i critici. Un’indignazione al quadrato che smonta completamente l’identità autoriale del romanziere. Quel che resta, evidentemente, quando la storia passerà e la nostra recensione sarà sommersa dall’algoritmo di Google, e solo il ricordo condiviso tra i pochi/molti che ci hanno letto e hanno visto la storia del Latronico. Un ricordo che non conserverà alcuna memoria di altri tempi, quelli in cui gli scrittori facevano gli scrittori senza piangere (almeno in pubblico).
