A Londra non bisognerebbe andarci a venticinque anni a lavare i piatti, a fare il cuoco o il musico sfigato. A Londra bisognerebbe andarci a cinquant’anni, quando si è esasperati, non si ha più la forza di combattere con le manifestazioni di Coldiretti a Circo Massimo, dei leghisti, dei sindacati, delle Giovani Marmotte, con il traffico del Lungotevere. Quando non si riesce più ad aspettare l'autobus di Badoglio, si ha il fegato troppo gonfio per litigare con i romani, non si possono più vedere le erbacce sullo spartitraffico della Cristoforo Colombo, piange il cuore alla vista dei nastri arancioni del Comune con i quali tutta la Città è incartata. Sale il magone nel sentirsi dire al bar “la maghina pe er cioccolato callo è rotta, er Vinsanto è finito, te posso portá na Cocacola fresca”. Ci cascano gli arti dopo quaranta minuti al telefono con il Cup di qualsiasi struttura, a sentire quella cazzo di Primavera di Vivaldi del disco di attesa, subiamo continui affronti alla pazienza nel constatare l’ennesimo furbo nell’atto di sorpassarci in fila, una qualsiasi fila. E si vorrebbe saltare da un bus a un altro strisciando una card su un dispositivo, senza che nessuno faccia caso a come si è usciti di casa, se con i bigodini in testa o con tre gambe, si vorrebbe avere liceità di diventare grassi magari e claudicanti, volendo, senza che nessuno se ne preoccupi, enfatizzando il tutto con una maglietta di Ozzy Osbourne, senza perdere per questo autorevolezza o credibilità. Ma si dà il caso che noi a Roma restiamo, perché siamo convinti che sia “la più bella città del mondo” – malgrado Via Oderisi Da Gubbio – nonostante il mondo giri, mentre noi siamo fermi alla disputa sulla cipolla nella amatriciana e all’onta morale di scorgere una plebea pancetta negli spaghi alla carbonara, piuttosto che del sacro guanciale. Noi a Roma restiamo, perché ci basta l’espresso, in tazza o al vetro, schiumato o macchiato caldo, corretto, lungo; il tè è qualcosa di esotico per mammolette di cui fidarsi poco e poi: che sei malato che te bevi er tè? E comunque, scusa, er tè lo bevono a Londra, mandovai a Londra, “non lo sai che ce servono i sordi? E poi ahò, a Londra piove. Se magna male. A Londra nun ce sta a Tibburtina, che è più variata”, diceva Vittoriona da Torpigna, proudly esemplare di efferata romanità, “è tutta uguale e poi nun ce sta Nando er carrozziere e mammina e papino”, diceva.
Poi ci sono comunque i fan di Londinium, Capitale di quella Britannia che i romani scopersero, cercarono di rendere più familiare costruendoci le terme per mettervi le terga a mollo, colonizzarono e infine, seccati, abbandonarono, constatandone l’asprezza del clima, per loro, avvezzi a un sole mediterraneo, l’assenza dell’amato grano – probabilmente già intuendo il florido futuro di pastasciuttari – nonché l’attitudine alquanto selvatica degli autoctoni Celti, bianchi e secchi, così diversi da loro. Si Lasciarono dietro quindi quell’isola nordica piovosa e tutti i tentativi di addomesticare e civilizzare quegli ostici barbari, si girarono sulle calighe e mandarono alla deriva la Perfida Albione e tutto il cucuzzaro. Ebbene i suddetti fan della City sulle rive del Tamigi amano recarsi a bere il tè, tapini, anche nel locus amoenus romano, tentando in maniera più o meno patetica di consolarsi con ciò che offre l’esercente locale, distante anni luce dalla concezione di english tea room e aderente in tutto e per tutto a quella di oste cor fiasco e la tovaglia a quadretti bianca e rossa. È così che, vagando, costoro possono imbattersi in quella mosca bianca presente a Roma da poco più di un secolo, ai piedi della scalinata di Piazza di Spagna, accanto alla Barcaccia e alla dimora, guarda caso, dei poeti inglesi, Keats e Shelley; the Babington’s Tea Room. Nel salotto buono della Capitale, il gotha della aromatica bevanda spicca come una England Rose, appunto, in un campo di cicoria. Aglio olio e peperoncino, però, sta cicoria. Ma il contrasto è comunque notevole. Noi pure, viandanti di MOW avvezzi al cappuccino – che er tè se lo famo a casa col pentolino e la bustina, salvo quando torniamo dalle scorribande londinesi carichi di tea leaves in eleganti latte smaltate di Fortnum & Mason e butter shortbread in valigia manco fossero specie rare in estinzione – siamo andati da Babington’s. Abbiamo sperato di respirare fumo di Londra accanto alla fermata di Temple sugli argini del Tamigi, vestendo tendenziosi stivali seventie’s e minigonna alla Mary Quant ma ahimé c’era un sole che ci abbronzava manco fossimo a Lametia Terme, la metropolitana era Spagna e il fiume era il solito ‘biondo’ Tevere. Per quanto riguarda il look, assicuriamo essere assai lontano dagli standard di Piccadilly. Abbiamo ordinato i tradizionali scones con la loro jam e clotted cream e dei biscotti nella loro brava alzata di metallo, una cioccolata densa in un bricco prezioso e un tè bianco agrumato. Ci siamo anche sforzati, ma nonostante la bellezza del luogo e le uniformi delle Signorine, di aria di Londra non ci siamo un granché inebriati. La heavy cream è stata sfacciatamente sostituita con un cucchiaio di romanissima panna e gli scones hanno esibito una carta di identità abbastanza tarocca. Più che londinesi parevano di Battistini-Boccea. Ottimi la cioccolata e il tè.
Babington’s vanta una storia davvero rispettabile, risalente al 1893, quando due Ladies inglesi di buona famiglia. Isabel Cargill, figliola del fondatore della città di Dubedin in Nuova Zelanda e Anna Maria Babington vennero e Roma e decisero bene, per nostra fortuna, di investire cento sterline nell’apertura di una sala da té destinata alla comunità anglosassone. Anna Maria era discendente di quell’Anthony Babington che nel 1586, a ventiquattro anni, ordì un piano con un gesuita per assassinare Elisabetta I e riportare sul trono Maria Stuarda e per questo fu squartato vivo, come si usava fare per i traditori della Corona. Allora in Italia il tè era venduto solo in farmacia, visto lo scarso uso che se ne faceva. La sala, ubicata in Via dei Due Macelli, ebbe successo tra l’aristocrazia e il mondo internazionale e fu poi spostata accanto alla scalinata e alla Shelley and Keats House, nel ghetto inglese, divenendo un punto di incontro per le Signore e i Signori. La Babington’s Tea Room ebbe vita dura durante la guerra ma resistette al fascismo – per quanto capitasse comunque di incontrarci dei gerarchi in camicia nera – e alla morte delle Signorine. Oggi è gestita dalla quarta generazione discendente da Isabel e rappresenta di fatto l’unica vera tea room inglese di Roma. Il celebre gattino che vediamo impresso sulle tazze è Mascherino, il micio che fu adottato parecchie decadi fa, capostipite di una lunga serie di altri gatti chiamati con lo stesso nome, che si appollaiava sulla cassa accanto al camino, contribuendo a dare al salotto quell’aria familiare che piaceva alle Signore. Negli Anni Cinquanta i divi del cinema americano giravano accanto alla scalinata le scene dei film; Audrey Hepburn e Gregory Peck erano li per Vacanze Romane, Liz Taylor e Richard Burton passavano a prendere il tè alla tea Room e capitava di trovare a colazione Liz struccata e Fellini, che abitava a due passi da li in Via Margutta, sedendo in disparte con i muffin al formaggio e prosciutto, disegnando. La Hollywood sul Tevere scelse quindi Babington’s come luogo di elezione. Charlton Heston, eroe di Ben Hur, era di casa e anche Tony Curtis con la figliola Jamie Lee, la quale amava la torta al cioccolato nero. La tea room anglosassone dall’atmosfera sobria e confortevole da centotrent'anni è teatro di amori, appuntamenti, confidenze davanti ad una tazza di tè. A noi basta che ci sia, in questa Roma che va via via perdendo le cose più belle della sua identità, senza acquisirne di nuove a dare la spinta a quella internazionalità che farebbe di questa Città una Capitale al passo con le altre, nel mondo.