Via del Babuino, ex Via Orto di Napoli, Via Paolina da Papa Paolo III e Via Clementina poi, da Papa Clemente VII, è una strada antichissima nel cosiddetto Tridente al centro di Roma. Rinominata dai romani Via del Babuino per via della bruttezza del muso del Sileno semi sdraiato sull'antica fontana adiacente Via dei Greci, ha la fama di strada illustre per via della vicinanza di dimore di intellettuali e artisti come Federico Fellini e Giulietta Masina e per l’eleganza dei suoi negozi di griffe. Ma non solo. Nella Via sono presenti due bar storici: il Notegen, prediletto da Pirandello, Picasso, Moravia, D’Annunzio e l’altro, accanto alla fontana del Babuino appunto, del Canova e del suo allievo prediletto, Adamo Tadolini. Prima di diventare un bar ristorante, infatti, fu l’alloggio e il laboratorio del padre del Neoclassicismo, l’autore del gruppo scultoreo Amore e Psiche, ispirato dal mito di Apuleio, di cui esistono due esemplari, uno custodito dai francesi al museo del Louvre e l’altro dai russi presso l’Ermitage. È un peccato perdersi l'esperienza di vivere un magnifico quarto d'ora – ma anche di più – in questo pazzesco bistrot letteralmente sopraffatti da calchi di gesso giganteschi, addossati alla Chiesa Anglicana dall'esotico nome “All Saints”, come moderni survivor metropolitani (i lettori ci perdonino il sacrilego paragone pop) e al Babuino. E visto che noi di MOW avevamo in programma di fare colazione, abbiamo approfittato di un complice sole romano primaverile di novembre, per raggiungere l’aristocratica strada e rifarci gli occhi nel salotto buono della Città. Peccato che la trasandatezza dei costumi romaneschi ci lasci sempre con l’amaro in bocca.
L’edificio del bar-ristorante Canova-Tadolini è uno splendore, una sorta di antico loft a due piani tra Piazza del Popolo e Piazza di Spagna, dotato di vetrate, scale interne e abbaini in legno. Oggi, accanto alla Chiesa Anglicana, prendono posto sul marciapiede i tavolini del bar, dove sovente due camerieri si azzuffano in un idioma di qualche sperduto buco di culo italico per come apparecchiare il tovagliato. All’entrata una gorgone coatta invita i clienti a entrare in un lodevole sfoggio di inglese, ma anche di spagnolo. Ha i modi del vigile urbano romano, quel mix tra il perentorio e lo svogliato allo stesso tempo. L’interno del locale è altrettanto meraviglioso, i tavoli sono incastonati tra le statue, la maggior parte di Tadolini. Purtroppo il piano superiore, al quale si accede grazie a una scala di legno, è interdetto dai perenni lavori di restauro ed è un vero peccato. I muri sono ricoperti di stucchi e gessi con relative spiegazioni e documenti originali degli affitti pagati da Canova. L’officina del grande scultore settecentesco di Possagno è interdetta al pubblico ma abbiamo potuto ficcare il naso di nascosto tra le fessure della antica porticina per spiare il luogo in cui nascevano le opere con il cuore in gola e la luce accesa all’interno, constatandone le perfette condizioni e la presenza degli attrezzi del mestiere dell’Artista. Con difficoltà riusciamo a spendere belle parole per quanto riguarda il servizio, un po’ fané.
Al banco la scelta di lieviti e paste è piuttosto modesta; il cornetto (dicesi cornetto, a Roma, quel particolare dolciume lievitato a forma di mezzaluna con le corna, che al nord d’Italia risponde al nome di croissant, mutuato dal francese) è parecchio banale, servito con un cappuccino discreto e tante chiacchiere – le cosiddette chiacchiere “da bar” di baristi incarogniti con il popolo di galli transalpini. I soliti francesi, chissà perché. In cassa distribuiscono senza far favella alcuna depliant dello storico Atelier, a testa bassa, come a dire “ma che vòi? Nun sai legge?”. “Il nuovo Fidia”, così fu soprannominato per la bellezza delle linee classiche delle sue statue, chissà cosa penserebbe di tale scelleratezza, mentre soffriva le pene dell’inferno per Domenica Volpato, femmina descritta di splendide fattezze ma che mai lo corrispose, preferendo a lui tale Raffaello Morghen, incisore. Pare che la fedifraga non confessò subito al povero Canova la sua passione per il succitato Morghen e che per sapere la verità, lo scultore si fosse nascosto in una cesta e si fosse fatto trasportare in Via Bocca di Leone per origliare di nascosto i discorsi di Donna Volpato, che confidava di amare Morghen. Da quel momento sembra che il Canova, distrutto per amore, se ne andasse in giro dicendo che mai più avrebbe preso moglie. Noi sappiamo che ciò non corrisponde a verità, visto e considerato che di cotte se ne prese a vagonate, in seguito. Ma comunque, flagellati di biasimo per la gaia inconsapevole ignoranza dei baristi, riguardo alla storia del luogo in cui prestano servizio – ma anche per il cibo scadente e l’atmosfera di trasandatezza diffusa – abbiamo avvertito ancor di più il dolore del misero Canova e ci siamo diretti fuori, dinanzi alla faccia del mitologico Babuino, genio brutto delle sorgenti deriso dall’irriverenza del popolo romano, nella speranza di assistere a qualche sua ‘babbuinata’, essendo una delle sei statue ‘parlanti’ di Roma. Costui ci ha guardato negli occhi proferendo un “nun t’accollà e stacce”, riferendosi al fatto comune a Roma – città che deborda in modo quasi cafone di ricchezze trascurate con una naiveté quasi arrogante – di odiarla per l’invivibilità e il campare alla “volemose bene” e all’amarla per l’abbraccio di cui è capace. Ma anche intimandoci di sloggiare e di lasciarlo beato lì, nei secoli, a osservare indisturbato il via vai di una delle strade più famose del mondo.