Da grande detrattrice di Darren Aronofsky, sin dai tempi de Il teorema del delirio, sono entrata in sala Darsena con lo stesso entusiasmo con cui potrei affrontare un'infibulazione fatta con una forchetta di plastica davanti alla movida giovanile a San Lorenzo, in un sabato sera qualsiasi. Ho sbagliato e sono felice quando un regista abbatte brutalmente i miei preconcetti, quando esco dalla sala cinematografica facendo pace con la vita, almeno per un attimo faustiano. The Whale, di primo acchito, potrebbe sembrare un episodio extended di Vite al limite, ma senza la presenza maligna del dott. Nowzaradan, o l’ennesima pièce teatrale trasposta male al cinema (infatti il film è tratto dall’opera teatrale di Samuel D. Hunter). Vi è mai capitato, per dirla con Lou Reed, di non avere nessun posto dove andare e nessuno con cui parlare? È quello che succede a Charlie (Brendan Fraser), professore di quasi 300 kg che passa la sua vita a insegnare inglese a una manciata di alunni in DAD, il cui unico supporto emotivo e fisico proviene da Liz (Hong Chau), sorella del suo grande amore perduto. The Whale è costruito su capitoli, ogni capitolo è un giorno e ogni giorno un passo verso la campana che sta per suonare per il professore esiliato nella sua stessa casa, nella sua stessa pelle che è diventata una patria ostile e avversa che gli si sta rivoltando contro. Come deus ex machina o elemento di disturbo mortale ecco l’arrivo della figlia Ellie (Sadie Sink, che conoscerete ovviamente per Stranger Things) da lui abbandonata a otto anni per seguire “un amore che non osa pronunciare il suo nome”. La rabbia di Ellie, la sua tensione tragica verso il vuoto lasciato dal padre, un vuoto su cui ha costruito tutta una vita fatta di muri e cinismo, ha lo stesso afflato commovente che ritroviamo nella grande letteratura, come Lo Svedese e Merry in Pastorale Americana. Pochi giorni e poi la fine: Ellie vuole in apparenza aiuto per il corso d’inglese, lui le promette tutti i soldi che ha (rinunciando così all’assicurazione medica e alle cure che gli servirebbero) creando, in questo modo, le premesse per un rapporto padre/figlia totalmente disfunzionale. E in tutto questo dolore, ereditato sin dalla nascita, personaggi che si alternano in una terra di nessuno: la madre di Ellie, Mary (Samantha Morton), è ancora ferita dall’umiliazione mai risolta nello scoprire un marito omosessuale; Thomas (Ty Simpkins), il giovane predicatore porta a porta della New Life che crede di poter salvare Charlie con la parola di Dio e infine, non meno importante, Dan, il rider che lascia la doppia pizza al professore ogni sera fuori dalla porta.
Non ricordo chi disse che l’anoressia era esporre un disagio al mondo e l’obesità era nascondere quello stesso disagio. Credo che una riflessione simile si adatti benissimo a Charlie e chi, come lui, ha fatto sprofondare nel cibo un dolore troppo grande. Ci sono tanti modi di ammazzarsi, arrivare a 300 kg è uno di questi, per non sentirsi perennemente inadeguato, fuori posto: l’unica via di uscita è uccidersi giorno dopo giorno con tutto il sadismo che solo una lenta tortura ti può dare. Americani, direbbe qualcuno, ed è una umanità degna di una graphic novel che ti aspetti solo da loro: i riferimenti sono quelli, da Herman Melville a Walt Whitman. Come è possibile che nell’immensità di un Paese simile, Charlie viva in un perenne naufragio tra le quattro mura domestiche, i ricordi del suo tragico amore e la vastità di una libreria piena di vite alternative? “Condannato all’eterno tormento” come Achab o, meglio ancora, come la balena bianca che ossessiona il Capitano. Ed è proprio Moby Dick o, almeno, ciò che legge ognuno in Moby Dick, a unire padre e figlia che, come una piccola Ishmael riversa il suo male sul mondo ogni volta che le viene ‘un ghigno sulla bocca’. Quando gli ‘amori’ della vita di Charlie entrano ed escono di casa, lasciando intravedere un mondo esterno non meno ostile e triste di quello della casa del professore, la luce, se c’è, non sembra mai penetrare davvero la soglia di casa. Brendan Fraser è meraviglioso, da Coppa Volpi, da Coppa Italia, da Oscar, da Telegatto, da tutto; vorresti abbracciarlo con la stessa devastante malinconia e frustrazione che provava J.D. Salinger quando scriveva di volere chiamare l’autore dei libri che amava per diventarci amico.
The Whale ci ricorda che c’è un tempo per la tenerezza e uno per la resa. Ellie e Charlie, ognuno a modo suo, vengono sospinti in avanti in una esistenza priva di coordinate, destinati a scontare gli errori fatti e subiti. Le colpe che possiamo infliggere a noi stessi e agli altri sono la distrazione e la dimenticanza. Se solo decidessimo di accettare l’esistenza del dolore degli altri oltre i confini del nostro corpo (grassi o magri, malati o meno), potremmo sperare di ritrovarci, magari in una giornata di sole, magari decidendo di fare un passo l’uno verso l’altro. Come padre e figlia, come una coppia di esseri umani di fronte alla prima crepa del mondo.