1998 è un disco che ha il sapore di qualcosa che non torna davvero, ma che rimane lì, in sospeso. È come quando rivedi un video sgranato della tua infanzia, senti la voce di qualcuno che non c’è più in sottofondo, e non sai se hai voglia di premere pausa o andare avanti. Coez questo lo sa, e in questo disco non gioca a fare il nostalgico di mestiere, ma scava nel proprio passato con lo sguardo di chi ha ancora qualcosa da capire di sé.
Non è il Coez più sperimentale, e nemmeno quello più d’impatto. Ma forse è il più umano. 1998 è un album che si muove dentro una memoria emotiva più che musicale: le atmosfere anni ’90 non sono solo nella produzione (che comunque, tra citazioni pop e beat asciutti, rimane coerente e ben curata), ma soprattutto nel modo in cui si affrontano i ricordi, con quella malinconia che non ha bisogno di spiegarsi troppo. È come se ogni brano fosse una foto storta, trovata in fondo a una scatola: a volte sbiadita, a volte vividissima, sempre personale.
Il disco si apre con Nessun tramonto, una ballad che accende subito la miccia emotiva: non succede niente di particolarmente sorprendente, ma è il tono che conta. Il modo in cui Coez canta certi passaggi, la sua voce impastata di nostalgia, fa entrare subito dentro il mood: qui non si tratta di stupire, ma di restare.
Qualcosa di grande è forse uno dei pezzi più riusciti, perché riesce a tenere insieme il sogno e la frustrazione, senza cadere nel cliché. È un racconto generazionale ma senza retorica, con quella disillusione gentile che ha sempre fatto parte del personaggio-Coez: non si arrabbia, non alza la voce, ma ti fa sentire il vuoto sotto i piedi.
Il brano Dentro al fumo, prodotto da Davide Simonetta, porta una ventata più urban, ma non perde mai l’anima fragile dell’album. Qui Coez si muove dentro un’esistenza fatta di frammenti, come se stesse cercando di dare un senso a qualcosa che continua a sfuggirgli tra le dita. Non è una novità nel suo repertorio, ma c’è una consapevolezza diversa: il dolore non viene più urlato, ma lasciato decantare.
Ti manca l’aria è uno dei brani più significativi per capire la direzione emotiva del disco. Non ha la forza di un singolo “da classifica”, ma proprio per questo si inserisce bene nel flusso intimo dell’album. Qui Coez gioca sul contrasto tra la leggerezza apparente della produzione e la profondità emotiva delle parole, come se il beat cercasse di distrarre da un malessere che invece resta sotto pelle. La voce è impastata, quasi sfinita, come se l’aria che manca fosse davvero anche nella gola di chi canta. È un brano che parla di dipendenze emotive, di relazioni che non guariscono ma a cui non si riesce a rinunciare. Non c’è rabbia, né disperazione: solo quel senso di vuoto che resta dopo che tutto è finito, ma il corpo ancora non se n’è accorto.
Non dire no segna il ritorno della collaborazione con Riccardo Sinigallia e porta con sé tutta la grazia che questa accoppiata sa generare. È un brano dolce e malinconico, che gioca sui contrasti senza mai forzarli: il crescendo musicale accompagna parole semplici ma profonde, come se la musica sapesse dove la voce non arriva.
Il centro pulsante del disco è Estate 1998, il brano che dà titolo e senso a tutto. È qui che l’album si mostra per quello che è davvero: un diario sentimentale che racconta una periferia fatta di motorini, fughe senza meta e primi amori, ma anche di silenzi, di assenze, di pomeriggi troppo lunghi per chi ha troppi pensieri e nessuna direzione. Coez riesce a evocare tutto questo senza sembrare nostalgico per forza: è un racconto sentito, che funziona proprio perché non vuole essere universale ma profondamente suo. Mal di te e Ti manca l’aria sono i due singoli già noti, e nel contesto del disco trovano una coerenza maggiore. Il primo è forse il più “Coez classico”: storie quotidiane, piccoli dolori e melodie che restano in testa. Il secondo è più sospeso, più etereo, e conferma la sua natura da ballad intima che non cerca lo sfogo, ma accetta la malinconia come condizione naturale.
In Roma di notte, insieme a Franco126 e Tommaso Paradiso, Coez firma una dichiarazione d’amore stanca e disillusa alla capitale. È una Roma vissuta di notte, di periferie e luci fioche, più vicina a Trastevere che a una cartolina. I tre artisti si muovono bene dentro questa atmosfera, e anche se il rischio della sovrapposizione è dietro l’angolo, riescono a mantenere le identità separate. Il risultato è una dedica malinconica e affettuosa, dove la città diventa metafora di una giovinezza andata via troppo in fretta. La parte finale dell’album mostra un lato più ruvido. Mr. Nobody è ironico e tagliente, ma lascia un sapore amaro in bocca: è il brano di chi ha creduto troppo e ha perso tutto, ma ci scherza su per non crollare. In Senza te, la voce sembra quasi fuori fuoco, come se Coez fosse davvero fuori posto: qui la produzione dissonante sottolinea bene lo smarrimento di fondo, ed è uno dei momenti più onesti dell’intero album.
Inverno 1998 è un epilogo perfetto. Chiude il cerchio iniziato con Estate 1998, ma lo fa con una consapevolezza diversa, quasi adulta. Il tono è più freddo, le immagini meno luminose, ma c’è una sorta di pace amara che accompagna l’ascolto. Non c’è più il bisogno di rivivere tutto, solo quello di accettare che certe cose sono successe e basta.

A chiudere tutto arriva Il tempo vola, che è più di un titolo: è un saluto, un sussurro, un addio. Qui Coez sembra guardarsi da fuori, come se stesse dicendo addio non solo a un disco, ma a una parte di sé. Il beat avvolgente accompagna parole che hanno il peso del tempo, ma anche il suono leggero di chi ha finalmente imparato a lasciarlo andare.
In conclusione, 1998 non è un disco perfetto, né vuole esserlo. Non c’è nulla di davvero nuovo, ma tutto è raccontato con sincerità. È un album che non urla, ma resta. Che parla più di ferite che di traguardi, e in questo trova la sua verità. Coez torna alle sue origini non per nostalgia, ma per necessità. E in questo ritorno, forse un po’ sfilacciato ma autentico, riesce a dirci ancora qualcosa di importante. Anche quando sembra che non dica niente di nuovo.
