“Funny Little Fears” è il primo album solista di Damiano David, ed è, a modo suo, un oggetto curioso. Non perché abbia qualcosa di particolarmente strano o innovativo – anzi, il suo problema principale è esattamente il contrario – ma perché si presenta come un perfetto pacchetto pop, ben impacchettato, con una produzione scintillante e brani costruiti per piacere, per entrare in rotazione, per stare in classifica. Eppure, al termine dell’ascolto, quello che resta addosso è una domanda: dove finisce il prodotto e dove inizia l’artista? Non si può dire che sia un brutto disco. È pieno di potenziali hit, la scrittura è essenziale ma funzionale, i brani scorrono con facilità, alcuni ritornelli si fanno canticchiare già al primo ascolto. Damiano ha una voce carismatica, ben dosata, sa stare dentro i brani con mestiere e padronanza. Il lavoro al mixer, poi, è eccellente: le mani che hanno toccato questi suoni sono tra le più esperte del pop internazionale, da Jason Evigan a Labrinth, e si sente. Ma è proprio questa perfezione a diventare il limite del disco. Tutto suona bene, tutto è calibrato, ma nulla riesce davvero a stupire, nulla sembra davvero suo. L’impressione è quella di un disco costruito più come un portfolio di generi che come un atto di espressione personale. L’intenzione è dichiarata fin dal primo verso: “New heights, new me, new state”, canta Damiano nell’apertura di “Voices”. È un’autopresentazione chiara: questo è il nuovo me, quello fuori dai Måneskin, quello che fa pop, che cambia pelle, che si reinventa. Il problema è che questo “nuovo me” somiglia fin troppo ad altri. Il disco si muove tra atmosfere alla Dua Lipa, ballate che sembrano uscite da “Fine Line” di Harry Styles, e momenti uptempo con un’eco beatlesiana riletta in chiave moderna, ma ovunque si avverta una forte influenza, manca una voce che possa dire “questo è Damiano, solo lui, solo adesso”. L’impressione è che la strategia sia stata quella di toccare un po’ tutti i territori del pop contemporaneo, con grande eleganza, ma senza prendersi il rischio di lasciare il segno.

Il brano “Born With a Broken Heart”, ad esempio, è uno dei momenti più coinvolgenti: un midtempo ritmato che ha qualcosa del piglio di Springsteen, ma riletto con quella patina indie-pop da Bleachers. Una bella idea, una buona scrittura, ma che sembra più il riflesso di un’estetica già nota che una visione nuova. E forse è proprio lì che avrebbe potuto fare la differenza un produttore come Jack Antonoff, capace di rendere riconoscibile ogni lavoro a cui mette mano, anche quando parte da strutture semplici. Qui invece i brani, pur ben suonati, sembrano suonare sempre con la stessa voce, e anche la scelta dei suoni, pur pulitissima, non osa mai davvero. “Tangerine” è forse l’episodio migliore del disco. Una ballad in tre quarti con una bellissima allure anni Settanta, chitarrine tremolate, un crescendo delicato e un ritornello che si apre quasi in chiave gospel. A innalzare ulteriormente il brano è la presenza di d4vd, che con la sua voce intensa riesce a portare un po’ d’aria fresca. Anche la produzione, in questo caso, sembra più ispirata, più profonda. Non è un capolavoro, non è un brano memorabile, ma funziona. Ed è uno dei pochi momenti in cui l’album sembra avere un respiro emotivo autentico. Altri brani invece, pur essendo ben scritti, finiscono per assomigliare a qualcosa che abbiamo già sentito decine di volte. Silverlines, primo singolo ufficiale prodotto da Labrinth, è una power ballad raffinata, con innesti gospel e soul, costruita con tutti i crismi, ma priva di mordente. Si ascolta, si apprezza la qualità dell’arrangiamento, ma dopo pochi minuti svanisce, come se non avesse radici. “Sick of Myself”, “Next Summer”, “Zombie Lady”, sono tutti brani che si muovono in un territorio emotivo molto chiaro: il trauma, la crescita, la fragilità, l’amore perduto. Ma il modo in cui ci arrivano è sempre filtrato da un linguaggio musicale già sentito altrove, che rende tutto un po’ derivativo. Il disco insomma è curato in ogni dettaglio, ben eseguito, ma anche privo di rischi. Non ci sono guizzi, deviazioni, momenti di sorpresa. È pop internazionale di alto livello, sì, ma anche di bassa personalità. E qui il confronto con i Måneskin diventa inevitabile. La band non è mai stata particolarmente originale dal punto di vista musicale, ma sopperiva con l’energia, con il live, con un certo modo di stare sul palco e creare identità. Da solista, Damiano si spoglia di quella forza performativa e sceglie di appoggiarsi sulla forma-canzone. È una scelta legittima, coraggiosa forse, ma che espone tutte le sue fragilità come autore. Non tanto per limiti tecnici – il songwriting, come detto, è semplice ma funziona – quanto per la mancanza di un punto di vista distintivo. Alla fine, Funny Little Fears è un disco che potrebbe piacere a chiunque ascolti pop mainstream, ma difficilmente sarà amato davvero da qualcuno. Non resta dentro, non lascia domande, non brucia. È elegante, è coerente, ma anche impersonale. E in questo non fa che confermare il suo titolo: piccole paure buffe, forse, ma anche una grande paura centrale, quella di osare davvero.
