Quello che capita nelle canzoni non può succedere in nessun posto del mondo. Lo cantava ormai una vita fa Mietta, direttamente dalle assi del Teatro Ariston di Sanremo, in gara con la canzone "Canzoni", prima classificata alla sezione Giovani del Festival della Canzone Italiana, canzone Canzoni firmata da Amedeo Minghi e Pasquale Panella, entrambi l’anno successivo a firmare anche "Vattene Amore", che Minghi e Mietta piazzeranno al terzo posto di una kermesse particolarmente pieno di popstar, quell’anno vincono i Pooh con "Uomini soli", davanti al solito Toto Cutugno con Amori. Quello che capita nelle canzoni, quindi, stando alle parole di Panella, un poeta, non può succedere in nessun posto del mondo. Mica è sempre vero. Mogol, anni prima, nel 1978, quando ancora era lui a scrivere i testi per Lucio Battisti e non appunto Pasquale Panella, sempre lui, ha fatto cantare al cantautore di Poggio Bustone le parole, poi divenute iconiche, “e siccome è facile incontrarsi anche in una grande città”, parole cui ha fatto seguire anche “e siccome io potrei purtroppo, anzi spero, non esser più solo, cerca di evitare che frequento e che conosci anche tu”. Ecco, è vero quel che Battisti canta in "Prendila così", da "Una donna per amico", capolavoro del 1978, è facile incontrarsi anche in una grande città. Figuriamoci in una piccola. Per dire, giorni fa, nei giorni in cui succedono le cose che vi racconto ora, ho accompagnato mia figlia Lucia alla stazione dei treni di Ancona, un tempo snodo abbastanza centrale della linea ferroviaria adriatica, oggi landa desolata nella totale perifericità cui tutto ciò che succede a sud di Bologna comporta, almeno nel lato destro dello stivale. L’ho accompagnata perché aveva una grande valigia e se ne stava tornando a Milano, per qualche giorno, noi tutti in Ancona per le feste. Il treno è puntuale, fatto di per sé abbastanza anomalo. Sugli schermi viene indicato il numero delle carrozze, così che ognuno possa farsi trovare al posto giusto e non procurare ritardi al convoglio. La carrozza dove ha il posto Lucia, mia figlia, è la 6. Alla nostra altezza è indicata la carrozza numero 4. Corriamo verso nord, dove dovrebbe trovarsi appunto la sua. Mentre passiamo Lucia si volta verso di me, che porto la pesante valigia, e mi dice “Questo è uguale a Giovanni Truppi”. Alzo la testa e dico: “Ciao Giovanni, che ci fai in Ancona?”. È qui per aver passato qualche giorno da amici, mi dice, indicando uno degli amici alle spalle di quella che immagino sia la sua compagna e sua figlia. Mi fa piacere vederlo, nella sorpresa di un incontro inaspettato, e credo faccia piacere anche a lui. È la seconda volta che ci incontriamo per caso qui in città, pur essendo lui di Napoli, avendo a lungo vissuto a Roma, essendosi poi spostato a Bologna, ora credo stia per tornare a Roma, e pur vivendo io ormai da quasi ventotto anni a Milano. La prima volta è successa il 19 agosto del 2020, in quella che poi si rivelerà l’estate tra il lockdown e quella specie di lockdown diluito e pieno di ostacoli che durerà fino all’estate 2021.
Eravamo entrambi all’altezza del Lazzaretto, che poi sarebbe la Mole Vanvitelliana, finché a governare la città c’è stata una giunta di sinistra il polo culturale del capoluogo marchigiano. Io ero esattamente all’altezza del ponte che vi da accesso, le acque torbide del Madracchio, piene di barche da pesca, a fare da cornice, lui sopra, lungo la camminata di via XXIX Settembre, all’altezza di Porta Pia. Stavo entrando alla Mole, e ricordo perfettamente la data, fatto per me assolutamente inedito, perché in serata avrei presentato lo spettacolo Il suono della voce, di e con Tosca, all’interno della rassegna locale Adriatico Mediterraneo. Mi sento chiamare, dall’alto, ma il sole mi impedisce di vedere chi abbia proferito il mio nome. Al che lui, Giovanni Truppi, si dichiara come tale, e così salgo e ci salutiamo. Lui insegna all’Officina Pasolini, di cui Tosca è direttrice artistica, quindi finirà che la sera ci verrà a ascoltare. È in città, mi dice, perché sta facendo una specie di periplo dell’Italia in camper, un viaggio iniziatico che poi dovrebbe finire dentro un libro. Anzi, un viaggio che finirà dentro un libro, L’Avventura, titolo quasi simile a una canzone di Lucio Battisti, scritta sempre con Mogol, in quel caso Un’avventura. Anche il nostro incontro finirà infatti dentro quel libro, edito dalla Nave di Teseo, fatto per me singolare, perché in genere sono io quello che scrive di quel che gli capita, manco fossi un autobiografo, fatto che spesso mi costa l’accusa di essere costantemente egoriferito. Sono per altro presente dentro anche altri due libri della Nave di Teseo. In uno, Corso Trieste, nella pagina dei ringraziamenti, perché Tommaso Zanello, in arte Piotta, ha voluto omaggiarmi per aver contribuito a far pubblicare quel gioiello scritto col fratello Fabio, ahinoi morto un paio di anni fa. Nell’altro, Quaranta vite, e stiamo per arrivare al tema di questo lungo pezzo, so che sembrerà incredibile ma questo lungo pezzo non parla di treni, né di coincidenze, di treni e fatti della vita. Quaranta vite è il libro autobiografico scritto da Enrico Ruggeri. Le quaranta vite cui Rouge fa riferimento, oltre a quelle che in effetti ha vissuto in una vita e una carriera particolarmente movimentata, fa riferimento ai quaranta album pubblicati, anzi, ai trentanove album pubblicati, il quarantesimo in via di pubblicazione, scusa usata per delineare il cammino di questo racconto. Io compaio a pagina 77, indicato come suo amico, giustamente, in relazione alla canzone Punk (prima di te), brano a me particolarmente caro che sono uso citare spesso, parlando di lui come parlando di me. Tornando fugacemente in stazione, il treno si ferma e ovviamente tutti i riferimenti degli schermi si confermano sbagliati, è pur sempre Trenitalia, Dio mio. Iniziamo a correre, come tutti i tanti presenti, ripeto, in prevalenza di giovani. Nel nostro caso dobbiamo tornare verso la coda, a precederci Giovanni Truppi e famiglia. La figlia, per altro, se quel che ha cantato a Sanremo nel 2022 risponde fedelmente alla realtà, si chiama Lucia come la mia, il titolo della canzone era “Tuo padre, mia madre, Lucia”. Io e Lucia lo abbiamo intervistato nel nostro podcast "Bestiario Pop", non ricordo se la cosa è venuta fuori.
Adesso, comunque, sempre quell’adesso lì, che per voi è incidentalmente adesso, loro sono in treno, Lucia mia diretta a Milano, io sono in auto, diretto a Marotta. Marotta è una delle uscite dell’A14, per la precisione uscita con doppio nome Marotta/Mondolfo. Subito dopo Senigallia, se si va verso nord, e un po’ prima di Fano, o viceversa, se invece si va verso sud. È quella che in genere verrebbe indicata come una “ridente cittadina di mare”, molto frequentata da turisti lombardi, un tempo ammassati in una doppia palazzina chiamata Le Vele, come quella di Scampia. Fino a oggi ci sono capitato solo due volte, perché noi marchigiani siamo tendenzialmente stanziali, per quel che riguarda l’andare al mare, almeno se siamo marchigiani nati sulla costa. Sono di Ancona, vado al mare intorno al Conero, non certo a Marotta. La prima volta che ci sono capitato ero un ragazzino, e con me c’era una folta comitiva di amici, tutti lì perché lì aveva casa un nostro amico, Luca Fuligni. Non ricordo come fosse il mare, ai tempi non ero poi così attento a questi dettagli, ma ricordo perfettamente che ho preso un eritema sul petto, fatto che mi ha costretto a stare buona parte della giornata a casa sua, con un asciugamano bagnato per refrigerare la parte dolorante. Da quel momento, nonostante io sia abbastanza scuro di carnagione, ricordo sempre quando Hanif Kureishi, dopo l’attentato dalla metropolitana di Londra nei primi anni zero, mi scambiò a sua volta per un indiano, non passo mai tempo al sole, se non abbondantemente coperto da crema solare protezione 50. La seconda volta, vedi tu, ci sono capitato recentemente, recentemente in relazione alla mia vita, ho cinquantacinque anni, il 12 agosto del 2022, due anni dopo di quell’incontro casuale con Giovanni Truppi in quel di Ancona. L’occasione era un concerto in una piazza sul lungomare proprio di Enrico Ruggeri, cui pochi giorni prima, mi sembra di ricordare, il sindaco aveva dato la cittadinanza onoraria, con tanto di autografo in bella mostra sui cartelli stradali che indicavano l’inizio dei confini cittadini. Autografo posto in calce alla scritta “la città de Il mare d’inverno”. È infatti noto che Enrico Ruggeri fosse solito passare qui le sue vacanze estive, e che proprio qui, quindi, ragazzo, abbia scritto il brano poi divenuto un classico della musica d’autore italiana, grazie a lui e anche all’interpretazione di Loredana Bertè, incomprensibilmente spesso dimentica di chi l’abbia scritta. Questa cosa del dimenticarsi di Enrico Ruggeri, pur avendo avuto lui come autore di parte portante del proprio repertorio è fatto che a volte colpisce anche Fiorella Mannoia, che a Ruggeri deve almeno due delle sue canzoni più famose di sempre, "Quello che le donne non dicono", recentemente oggetto di uno strafalcione riguardo un passaggio del testo da parte della rossa cantante, e "Dubbi dell’amore", che almeno non viene martoriata per mere faccende di oppurtunismo. Ruggeri è del resto da sempre divisivo, come spesso capita ai punk come agli anarchici. In quell’agosto del 2022 lì, di fronte a una folla vasta e osannante, Enrico mi ha dedicato proprio Punk (prima di te), vedi un po’ come tutto torni.
Adesso sono diretto a Marotta perché Enrico è lì, ieri ha tenuto un concerto a Riccione, e c’è un disco nuovo che devo assolutamente ascoltare col giusto anticipo sui colleghi. Succede da anni, di ascoltare i suoi lavori in anticipo, ma mai era successo da queste parti. Il titolo del suo nuovo, quarantesimo, album è "La caverna di Platone", e se il suo ultimo lavoro, sempre del 2022, La rivoluzione, può dirci qualcosa, sarà un capolavoro. Un capolavoro, qui sto sempre giocando di immaginazione, o fingendo di farlo forte di quel patto tra chi scrive e chi legge, patto che fa sì che io posso dire, seduto di fronte al mio computer, di essere in auto diretto a Marotta, pur essendo già stato a Marotta, o in procinto di andarci, o addirittura pur non andandoci affatto, e chi legge è tenuto a crederci. Potrei, in sostanza, aver già vissuto quel che sto raccontando, e aver deciso di raccontarlo a partire proprio dal viaggio, perché così mi sembra più efficace, o potrei aver inventato questa faccenda del viaggio per il medesimo motivo, o perché così mi andava, irrilevante star qui a fare il fact checking di un pezzo che non ambisce certo a essere mera cronaca. Per altro, provateci voi a fare fact checking sulla mia vita privata, se ci riuscite.
Scatto in avanti. Sono sulla strada di ritorno. Ho visto il mare d’inverno. Quello che capita nelle canzoni, ripeto, a vole succede. Ho visto il mare d’inverno, quello della canzone, quello di Marotta. Sono abbastanza abituato a vederlo. No, non quello di Marotta, il mare di inverno in generale. Sono nato e cresciuto in una città di mare, almeno per i primi ventotto anni della mia vita era una consuetudine. Da che vivo a Milano vado quasi tutti gli anni a Sanremo, d’inverno, e passo le vacanze di natale in Ancona, d’inverno. Ma ho visto il mare d’inverno che ha ispirato Ruggeri, quello di Marotta, e in effetti la sua descrizione è precisa fino quasi al didascalismo. In giro non c’era praticamente nessuno, a parte noi. Il mare, in realtà, inteso come acqua, non come luogo dell’anima, non era affatto agitato. Anzi, era proprio una tavola, fatto di per sé anomalo, visto che nei giorni scorsi c’è stato un vento pazzesco che ha spazzato via alberi e capanni.
Sembra quasi che Ruggeri abbia deciso, almeno in apparenza, di prendere la forma dell’acqua, come nel film di Guillermo Del Toro, vai poi a capire se lui è la tizia che si prende cura dell’anomalo essere acquatico o l’essere acquatico stesso, perché musicalmente le tredici tracce sono assai meno agitate che in precedenza. Molte più le ballate che i brani spinti, molta più orchestralità che punkitudine. In apparenza. Perché i testi, anche quelli molto riflessivi, in verità, spigolosi lo sono, eccome. Solo in una maniera differente. Non volendo spoilerare molto, o troppo, basterebbe ascoltare il singolo "Il poeta" per capire di cosa Ruggeri vuole parlarci oggi, della condizione che si trova a affrontare nella contemporaneità colui che aderisce al libero pensiero (la soluzione del mistero è mascherata appena da un vocoder, ma è ben chiara a tutti). Spesso accusato di essere di destra, in un mondo che per sua natura è tutto assembrato a sinistra, per convenienza spesso più che per adesione ideologica, Rouge ancora una volta si diverte a sparigliare le carte, prendendo posizioni che risuonano come tutte sue, anche nella scelta di vestirle di suoni apparentemente dolci. Niente disincanto, per essere chiari, o rassegnazione, direi proprio tutt’altro. Piuttosto un voler reclamare il diritto a dire la propria, a costo di scontentare tutti quelli che ragionano per schieramenti, forte dell’avere una propria personalità. Il punk, è lì che Ruggeri affonda le sue radici, certo arricchiti da innesti che derivano dalla canzone d’autore francese come dal nostro cantautorato, ha giocato sin dal suo esordio, quello partito dal basso come quello teoretico allestito da Malcolm McLaren, a rovesciare gli immaginari, provocare per il gusto di provocare e di creare disagio, spiazzamento, smantellare o smascherare certe ipocrisie, ne La caverna di Platone Ruggeri ancora una volta si accosta all’Elvis Costello più romantico, ricordate che nulla è davvero come sembra, innestando di eversione i suoi testi, eversione verso un pensiero assolutamente addomesticato e sposato d’ufficio, ma anche verso quello che ormai sembra davvero una sorta di obbligo morale imposto, ascoltare Das Ist Mir Würst ma anche la dolente Zone di guerra, con tanto di citazione di "Luglio Agosto Settembre Nero" degli Area, per tornare al discorso destra/sinistra di cui sopra, per credere. Quest’ultima canzone, insieme al nuovo singolo "La bambina di Gorla", che racconta della carneficina avvenuta durante i bombardamenti di Milano in una zona popolare di Milano, dove insegnava sua mamma come maestra, salvatasi per miracolo, rappresenta un ennesimo sberleffo a tutti quanti quelli che continuano a identificarlo per quel che non è, perché canzoni così potentemente contro la guerra, in giro, ce ne sono davvero poche, e quello che capita nelle canzoni è di suo più evocativo di quello che ci si limita a proclamare coi post sui social, parole dette spesso con lo stampino e destinate a non lasciare traccia, quindi a non avere alcun effetto. Poi, certo, ci sono anche i momenti più movimentati. Penso a "Il cielo di Milano" o a "Il problema", non sia mai che qualcuno pensi che io stia parlando di sentimentalismo tout court. Ascoltare Ruggeri, oggi come ieri, significa decidere di stare in quella che lui stesso definisce una "Cattiva compagnia", il brano in questione è una sorta di autobiografia che non fa sconti a nessuno, a partire da se stesso. E al tempo stesso è un modo per raccontarci l’oggi, usando un se stesso riconoscibile come mirino per inquadrare bene la preda, poco conta se qualcuno resterà abbagliato dal gesto provocatorio e urticante invece che dal discorso nel suo complesso. Credo che nessuno possa anche solo pensare che io sia di destra, per la mia storia personale, per quel che scrivo, per quel che faccio, e mi piacerebbe, sono abbastanza egoriferito per pensarlo, che tanto basterebbe a indurre chi considera Enrico Ruggeri di destra possa pensare che il fatto che sia a me molto vicino sia sufficiente a fugare ogni dubbio. Così non sarà, amen.
Un disco complementare de "La rivoluzione", quindi, dove l’aver potuto lavorare per tre anni su un numero alto di canzoni ha portato a una sorta di greatest hits che non lascia spazio a pezzi minori. Il fatto che Il poeta sia uscito sotto Natale, finendo anche in alta rotazione in radio, a sua volta letto ipoteticamente come sberleffo è in realtà figlio di un tempo che prevede la fagocitazione di qualsiasi cosa esca in virtù delle playlist di Spotify, campionato cui un lavoro pensoso come quello di Ruggeri evidentemente non vuole prendere parte, se non incidentalmente. Usare la musica leggera, la forma canzone, per veicolare pensieri è già qualcosa di desueto. Desueto quanto la parola desueto, verrebbe da dire, farlo per veicolare pensieri che ambiscono a farsi bandiera di pensieri liberi in mezzo all’omologazione, immagino, un triplo salto mortale che solo chi è abituato a prestare attenzione può permettersi di comprendere. Giorni fa, di passaggio dal salotto di TV Talk per presentare il suo pregevole Gli occhi del musicista, gioiellino di programma che ovviamente non si avvale del placet di Friends and Partners, quindi deve andare a scovare ospiti di valore (da Ambrogio Sparagna a Luca Madonia e Mario Venuti, di nuovo insieme temporaneamente, tornando a Tv Talk, Ruggeri ha provato a dire la sua sul caso del giorno, cioè la presunta censura a Tony Effe da parte della giunta Gualtieri. Lo ha fatto sottolineando come la solidarietà incassata dal rapper romano suonasse di parte, forse anche di consorteria, citando se stesso messo al bando ai tempi del lock down per le sue idee sul Covid o Povia, nome praticamente innominabile, il rischio di essere bollati per folli dietro l’angolo. Per tutta risposta si è sentito rimbrottare a suon di “questa è la dietrologia” da parte di Mia Ceran, evidentemente poco avvezza a sentire discorsi che escano dai binari (e forse anche per questo lì dove si trova). Ecco, credo che quello che Enrico Ruggeri da molto tempo fa, da qualcosa come quaranta album, oltre quarant’anni di carriera, eccetera eccetera, è provare a scardinare lo steccato imbellettato del pensiero unico, in musica e parole. "La caverna di Platone" a breve sarà lì per farlo attraverso tredici tracce, una più bella dell’altra.
Piccola chiosa, atta a dare una simmetria ambiziosamente perfetta al tutto, finito di scrivere questo pezzo sono andato a fare un giro in centro, qui nella città che mi ha dato i natali. Mentre passavo per piazza Cavour, ancora piena di bancarelle dei mercatini di Natale e con la grande ruota panoramica che fa bella mostra di sé su un lato, uso il presente ma spero non sia necessario stare ancora qui a spiegare perché, vedo un viso familiare. Mi capita spesso, mentre passeggio per le vie della mia città natale di vedere visi familiari, qui ho amici e parenti, oltre che conoscenti, avendo io vissuto qui i miei primi ventotto anni di vita. Solo che il viso familiare non appartiene a nessuna delle categorie appena menzionate, almeno non a quelle che nel mio essere nato e cresciuto qui ha prodotto. “Valerio!” dico sorpreso. “Michele!” mi risponde altrettanto sorpreso. È Valerio Piccolo, cantautore e intellettuale da poco salito agli onori delle cronache per aver donato una sua canzone, “E si’ arrivata pure tu” alla colonna sonora del film Parthenope di Paolo Sorrentino, canzone poi finita nel suo album "Senso", di assolutissimo pregio. Un lavoro dove cura per le musiche e per i testi vanno di pari passo, esattamente come nei lavori di Ruggeri, e anche in quelli di Giovanni Truppi. Valerio è qui in vacanza, fatto di per sé sorprendentissimo, con la sua compagna, che mi presenta. Ci fermiamo a fare due chiacchiere, e per qualche istante mi sembra quasi che la provincia che mi sono lasciato alle spalle ormai una vita fa sia un po’ meno provincia. Il tempo di realizzare che siamo tutti qui di passaggio, salutarci ripetendoci che non dobbiamo perderci di vista e riprendere le nostre strade. La mia porta a Milano, sotto quel cielo cui Enrico ha dedicato forse la canzone più movimentata del suo nuovo album, "La caverna di Platone". Resterò qui qualche altro giorno, capace che prima che io parta incontri qualche altro pezzo importante del nostro cantautorato, capace di no, in fondo, nonostante siano passati ormai decenni resta sempre vero: “un niente in un’anima cosciente provoca i guai”.