Con Mediterraneo, Bresh traccia una rotta che più che geografica è interiore, affettiva, quasi memoriale. Il titolo non è un vezzo: il mare è ovunque, come elemento simbolico ma anche sonoro, come orizzonte e abisso, come figura del ritorno e della dispersione. E in questa distesa fluida e mutevole si riflette anche l’identità dell’artista: uno dei nomi più riconoscibili della nuova scena genovese, e forse anche uno dei più difficili da collocare in modo netto.
Il viaggio prende il largo con Rotta Maggiore (Partenza), una traccia che funziona come manifesto poetico del disco. Non ci sono fuochi d’artificio, solo parole scelte con cura, immagini discrete ma dense, uno storytelling che preferisce l’onestà alla forma. La scrittura, qui, è profondamente personale ma mai esibita, intima senza diventare chiusa. È il Bresh più vero, quello che parla con voce quasi dimessa, come se scrivesse da una stanza affacciata sul mare. Eppure, anche in questo momento così sincero, la produzione interviene con una patina che smorza l’impatto emotivo: la voce, levigata e processata, sembra quasi imbrigliata, privata della sua ruvidità naturale.
Il problema del trattamento vocale torna lungo tutto l’album, creando un contrasto costante tra il desiderio di autenticità e la necessità (o la scelta) di restituire un suono aderente a certi standard pop-urban contemporanei. Un contrasto che si fa più evidente in brani come Capo Horn, il featuring con Tedua. Sulla carta, la collaborazione avrebbe potuto portare a un'esplorazione profonda dei limiti, geografici ed esistenziali. Ma il risultato appare meno incisivo del previsto: il brano resta in superficie, e il flusso di Tedua non trova un vero spazio per radicarsi. Più che un dialogo, sembra un incastro forzato, in cui ognuno resta per conto suo.
Diverso il discorso per La Tana del Granchio, già presentata sul palco di Sanremo. Pur non brillando per originalità nella scrittura o nella struttura, riesce comunque a evocare un’atmosfera sospesa e romantica che colpisce. È una ballata sentimentale che vive più di immagini che di dichiarazioni, con una malinconia che scorre silenziosa sotto ogni strofa. La canzone non cerca la perfezione ma un calore sommesso, e in questo riesce a toccare corde profonde.
Nella prima metà del disco si percepisce chiaramente un impianto tematico: il mare come allegoria, l’identità come qualcosa da ritrovare o da abbandonare, la narrazione come modo per orientarsi. Tuttavia, superata la boa di metà percorso, l’album sembra perdere parte della sua coerenza iniziale. Non si tratta di un crollo, ma di una progressiva frammentazione: i brani della seconda parte, Agave, Popolo della notte, Aia che tia, Guasto d’amore, fino a Torcida – suonano più come singoli scollegati che come tappe di un racconto.
Aia che tia merita però una parentesi a parte. È uno dei pochi brani della scena urban italiana in cui il genovese viene usato non come semplice colore locale, ma come vero e proprio strumento espressivo. La scelta di cantare in dialetto non arriva dal nulla: segue idealmente la recente cover di Crêuza de mä di Fabrizio De André, a cui Bresh ha saputo avvicinarsi con rispetto e intelligenza. In questo senso, Aia che tia non è solo un episodio folkloristico, ma un ponte culturale, un modo per dare dignità musicale a una lingua spesso relegata a margine. Il brano non cerca di essere accessibile a tutti, ma proprio in questa chiusura si fa più autentico, come una voce che parla solo a chi sa ascoltare davvero. Le collaborazioni, da Kid Yugi a Sayf, da Achille Lauro fino a Tedua, portano sapori diversi, ma solo in parte arricchiscono l’equilibrio complessivo. Spesso sembrano più inserimenti funzionali al mercato che veri incroci creativi.
Torcida, ultima traccia del disco, chiude il percorso con toni che non cercano la grandiosità ma neanche la sintesi. È una conclusione più aperta che definitiva, che sembra confermare la natura frammentaria della seconda parte del progetto. Non c’è un vero atto finale, né un ritorno tematico deciso: solo un altro movimento, un’altra deriva. In definitiva, Mediterraneo è un disco che vive di chiaroscuri. La scrittura di Bresh resta uno degli elementi più riconoscibili e personali della nuova ondata genovese: mai forzata, mai eccessiva, sempre in bilico tra confessione e suggestione. Ma la produzione, spesso più levigata che emotiva, e una seconda metà meno centrata rischiano di affievolire la forza del concept iniziale. È un disco da ascoltare più che da consumare. Un disco che, come il mare che lo ispira, ha momenti di calma piatta e altri di turbolenza. E che, nonostante tutto, continua a restituire la sensazione che Bresh sia ancora alla ricerca di qualcosa. Forse della sua forma definitiva. O forse solo di un luogo in cui fermarsi a guardare il mare senza dover spiegare più nulla.
