Potrebbe andare peggio, potrebbe piovere. Questa è una delle classiche battute, figlia di Frankenstein Jr, che si è usi citare quando le cose sembrano non lasciare prospettive ottimistiche. Per dirla con il maestro Amedeo Minghi, “infatti piove”. O almeno ha piovuto fino a poche ore fa. E ovviamente non è certo questo il problema. Piove, ok. Ma ho anche cominciato la dieta, e farlo al ritorno dalle vacanze di Natale è sempre impresa epica, come se cominciare una dieta non lo fosse di per sé. Niente zuccheri, niente alcolici, e fin qui vado via liscio, non bevo praticamente mai, carboidrati due volte la settimana, grandi piatti di insalata e via, fino a giugno, il cammino di Santiago come meta finale. L’idea è di perdere nel giro di qualche settimana tra i dodici e i sedici chili, per poi proseguire in un mantenimento costante fino all’estate (nelle diete, è noto, è mantenere quel che si è perso la parte più tosta). L’idea della dieta già c’era, ma devo dire che aver avuto a cena un parente di mia moglie, un parente lontano che però si trova a vivere in Ancona in quanto impegnato nella specializzazione di medicina nell’ospedale Regionale di Torrette, parente che, in quanto specializzando in medicina, ci ha tenuto a farci sapere, tra una risata e l’altra, quali cibi assolutamente sarebbero da evitare come la peste, cibi che per altro lui non ha evitato di mangiare, per poi passare, questo durante la cena dell’ultimo dell’anno, a casa di nostri amici, di parlarci del BMI, il il Body Mass Index, cioè Indice di Massa Corporea, qualcosa che si calcola, a spanne, dividendo il nostro peso in chilogrammi per la nostra altezza in metri al quadrato, indice che attesta che devo assolutamene dimagrire, non bastasse lo specchio e anche un certo affanno che di tanto in tanto mi ritrovo come compagno nelle mie passeggiate. Sì, perché oltre che la dieta, questa iniziata ufficialmente finite le vacanze, per dimagrire tocca anche fare attività fisica, nel mio caso circa dieci chilometri al giorno, fatto che quando posso pratico anche mentre non sono a dieta. Una vita di inferno, si potrebbe ipotizzare, ma mica è finita. Perché pioggia e dieta non possono evidentemente bastare. Ci si è rotta la lavatrice. In una famiglia con sei persone, di cui quattro figli, la lavatrice che dà chiari segni di disagio, a ogni fine lavaggio si accende una spia e parte sul display un errore lampeggiante, è qualcosa da prendere più sul serio di un vaticinio di Nostradamus, guai a prenderla sottogamba. Ma provateci voi a chiamare un tecnico della lavatrice al rientro dalle vacanze, fate prima a telefonare alla famiglia Merloni e farvi passare direttamente colui che quella scheda madre ha ideato. Quindi piove, sono a dieta e la lavatrice ci sta per abbandonare. Basta? Figuriamoci. Da oggi e per i prossimi cinque, sei mesi, esattamente sopra casa mia ci saranno i lavori di “manutenzione straordinaria” dell’appartamento sovrastante. Per manutenzione straordinaria, è chiaro, si intende ristrutturazione totale, violenta, sovrastante, appunto. In pratica a partire da oggi, tutti i santi giorni avrò martelli pneumatici, trapani, clangori che Marinetti levate de torno, il tutto esattamente sopra la testa. Considerando che io passo buona parte delle mie giornate a casa, qui lavoro per circa il novanta percento del mio tempo, e considerando che da dopo il Covid anche mia moglie lavora parte della settimana in smart working, volendo mettiamoci pure che ho due figli che studiano all’università, rispettivamente Accademia di Brera e Economia Finanziaria, gli esami nelle prossime settimane, ecco, potete ben capire a che tragedia stiamo per andare incontro. Mettendoci che da quando abito in questo appartamento, esattamente da fine luglio del 2018, tranne i tre mesi del lock down qui intorno ci sono sempre stati lavori, prima per la faccenda del 110%, poi per ristrutturazioni varie nel palazzo, infine perché proprio di fronte a noi, dove prima c’era un garage, ora sta sorgendo un palazzo di sette piani, uno di quelli il cui cantiere cincischia a causa degli intoppi burocratici che Sala spera di sbrogliare con la norma Sblocca Milano, potete avere ben chiaro in mente in che tipo di delirio sonoro io e la mia famiglia, oltre che le famiglie dei nostri vicini, si stia vivendo in quella che molti si ostinano a raccontare come la città più europea d’Italia: Milano. Un costante inquinamento acustico, altro che smog dell’aria, che finisce per intaccare il nostro sistema nervoso, o meno prosaicamente, le nostre palle. Quindi piove, sono a dieta, mi si è rotta la lavatrice e per sei mesi avrò un martello pneumatico sopra la testa, potrete quindi capire che io potrei non essere esattamente ben disposto nel momento in cui mi metto di fronte al mio computer per scrivere un pezzo. Tanto più che so già che a breve dovrò fermarmi perché arriverà un tecnico dell’assicurazione per fare foto ai soffitti del mio appartamento, così da poter in caso constatare effettivi danni che i lavori del piano di sopra dovessero procurarci. Partire così non mi sembra proprio iniziare col piede giusto, a occhio, ma tant’è.
Ora, subito dopo aver annullato l’ordine lasciato in sospeso per l’acquisto de "L’arte dei rumori- Manifesto futurista" di Luigi Russolo, visto e considerato che a breve ne scriverò uno io in prima persona, decisamente sul pezzo e più aggiornato di chi in fondo altro non era che un ingenuo credulone, mi accingo a ascoltare la nuova fatica di Guè, al secolo Cosimo Fini, Mimmo per gli amici, Pippo per la mamma (questo lo so perché anni fa ci siamo mandati ripetutamente a cagare su Twitter, oggi X, e lui a un certo punto ha chiamato in soccorso la mamma, screenshottando un suo messaggio nel quale lo incensava, pur riprendendolo per l’eccessivo sfoggio di parole volgari, infamando in qualche modo me e, fatto che ai tempi mi ha fatto molto ridere, chiamandolo appunto Pippo, vai a capire da cosa arriva quel nome). Un album dal titolo importante, "Tropico del Capricorno", in molti ci hanno tenuto a far sapere citazione dell’omonimo romanzo di Henry Miller, libro gemello dell’altro tropico, "Tropico del Cancro", libri di grandi parole lì a raccontare grandi scopate, in cuor mio penso sia un suo involontario omaggio al mio recente viaggio africano, del resto il suddetto Tropico non passa troppo distante dai luoghi che ho toccato. Un album infarcito di feat, come usa oggi, e lui che dei feat è re indiscusso, trovare un album rap o urban senza lui nei crediti è quasi impossibile, con una assenza che spicca su tutte, quella di Marracash, che col suo album "È finita la pace", si suppone, andrà a contendersi per un po’ la classifica FIMI, almeno finché a fine mese non uscirà l’album di Jake la Furia, con lui parte dei da poco ritornati Club Dogo. Ora, ci ho scherzato su, ma un nuovo lavoro di Guè è sempre un piacere per l’ascolto, almeno su quello distratto. O meglio, su quello nel quale non ci si aspetta per forza una qualche forma di contenuto profondo, perché Guè è senza ombra di dubbio uno dei nostri rapper migliori. Un top player proprio come Marracash, ma a differenza di Marracash è dedito a intrattenimento piacione e compiaciuto, mai o quasi a veicolare messaggi profondi. Col che non si voglia pensare che Tropico del Capricorno sia un album vacuo, perché saper intrattenere e saperlo fare con una cifra facilmente riconoscibile, al primo ascolto, con stile, molto, e soprattutto riuscendo a rimanere sempre se stessi ma al tempo stesso sempre contemporanei, è faccenda non da tutti, anzi praticamente da nessun altro, almeno in Italia. Prova ne sono alcune delle tracce presenti in questo album, già dall’iniziale "Oh mamma mia", con Rose Villain, brano che scalza come riuscita la riuscitissima "Come un tuono", tra i dieci brani più ascoltati l’anno scorso, in quel caso Rose come titolare del singolo, qui impreziosito da un sample di "Che soddisfazione" di Pino Daniele, davvero tanta roba, già candidata a essere tra i brani più ascoltati del 2025, o "Movie", con l’altro top player, decisamente più giovane di Guè, Geolier. Certo, sembra che i due abbiano giocato sul sicuro, senza arrischiare niente di imprevedibile, ma non è che ci si possa sempre lamentare, credo. E a proposito di Geolier, Guè quest’anno sarà in gara a Sanremo, come voce rappante del brano "La mia parola" di Shablo, incidentalmente anche suo manager. Lui, però, sembra non saperlo, o non essere di questo avviso. Così ha scritto sui social, sottolineando come il suo nome vada pronunciato come si scrive, Guè e non Ghè, e così ha voluto dirci. Chissà se questa cosa cambierà qualche equilibrio nella sua carriera, già ampiamente baciata dal successo. Vedere l’uscita del suo lavoro un mese prima del Festival, a occhio esperto, è sembrato proprio un voler prendere le distanze dalla kermesse rivierasca, come un dire: ok, ci sono, ma non faccio sul serio. Io poi, ma questo potrebbe essere un inconscio strascico proprio di quel periodo in cui io e Pippo ci mandavamo a cagare sui socia, bei tempi, ho molto apprezzato anche il brano "Nei DM", feat Ernia e Tormento, quest’ultimo con lui e Joshua a Sanremo, perché è figa l’autoironia del parlare dei casini fatti in DM, lui che grazie alle foto del pisello, invero inversamente proporzionale alla sua alta statura, parlo di statura fisica, Pippo è alto, e di statura artistica, Pippo è bravo, ai tempi diventato virale, vedi cosa capita quando mandi foto di te che ti fai le seghe alle tipe (da Pippo a pippa è un attimo, mi sa). Su Ernia prima o poi dovremo fare un ragionamento, perché il rischio di passare sempre per quello di Superclassico è forse ingeneroso per uno come lui. Ho apprezzato l’insolita "Meravigliosa", con un feat che un feat non è degli Stadio, in realtà è un sample da "Acqua e Sapone" dei medesimi, già utilizzata da tanti altri in passato (su tutti Ice One e La Comitiva con Nottetempo, anche se Guè se la cava alla grande pure qui) come anche "Gazzelle", con l’astro nascente del rap al femminile Ele A, anche se credo che Anna possa dormire per ora sonni tranquilli, non ho ascoltato "Da 0 a 100" con Shiva, perché sono in fondo un moralista, mentre ho apprezzato anche "Nei tuoi Skinny" con Frah Quintale, estiva anche quando fuori piove, un reggaettone privo di contenuti, ma che si dichiara tale sin dalle prime battute, meno roba autocompiaciuta e sciapa come "Le Tipe", Dio mio ormai c’hai una certa età, e il brano con Tony Effe, seppur ci sia anche Ghali, nei fatti assai più presente del collega, ma quello è un problema mio col rapper romano, monotono come tematiche e come flow, rapper che proprio mi risulta urticante, ma nel complesso il disco è tutto potente, grazie anche alle produzioni di SixPM e Chef P, al punto, per qualche minuto, da avermi fatto scendere la carogna che mi era salita sulle spalle, un po’ come certe immagini gotiche (penso proprio a Gothic di Ken Russell), carogna che lì staziona da che piove, sono a dieta, ho i lavori sopra la testa eccetera eccetera.
Guè, so che dirò qualcosa che farà rabbrividire qualche maestro di letteratura, è una specie di John Barth del rap. Parlo per l’Italia, padrone del flow e della lingua, il più bravo di tutti a non dire praticamente mai un cazzo, che però ogni tanto lascia degli squarci dentro il suo subconscio, come nel brano "Astronauta", la canzone più intima e cupa della covata. Uno stiloso che a volte diventa uno stilita, qui sono io a giocare con le parole, ma che preferisce quasi sempre giocare a distrarsi e distrarci portandoci a spasso con parole che come i villaggi dei film western di un tempo hanno solo le facciate, ti affacci a guardare dentro le porte e le finestre e non ci trovi nulla. Un massimalista, un postmoderno che spesso usa il suo talento per esibire il suo avere più che il suo essere, quantomeno sincero nel tenere la posizione, avere che sia esso il successo, la ricchezza, quel che è, un massimalista che quindi potremmo accusare di sperpero di talento, ma alla fine si salva sempre in corner perché il postmoderno è postmoderno proprio per quel suo accusare la caduta libera dei valori e per quel suo saperci intrattenere stupendoci e spiazzandoci con fuochi d’artificio in una stanza. Fastidioso, questo constatare uno spreco e al tempo stesso riconoscere un merito, ma sopra la testa ho un martello pneumatico che si alterna a colpi di maglio perforante, come quello del vecchio Goldrake, figuriamoci se mi faccio fregare dalla gestione del talento degli altri. Un John Barth che probabilmente non sa manco chi è John Barth, ma che poi nel brano con Chiello, Non lo so, tira fuori frasi come “non solo so se guarirò dalle ferite tatuate sottopelle/ mi scrollo gli incubi di dosso nelle barre/ promesse che si sono rivelate false”, inguaribile romantico costretto a indossare la maschera da duro. Pippo, dillo a mamma che in fondo ti stimo, ci vediamo a Sanremo, io sarò a fare le interviste per MOW, tu forse non lo hai ancora ben capito, ma sei in gara alla settantacinquesima edizione del Festival della Canzone Italiana. Toh, oggi fuori c’è il sole, ma non diciamolo a voce troppo alta, potrebbe sempre piovere.