Uno si immagina l’educazione come una linea che cresce, come il pil (si spera), come l’aspettativa di vita, come la qualità della salute. Se la aspetta come un progresso. E invece l’educazione è almeno un sismografo, se non semplicemente una lunga retta che va sempre più giù. Anzi, più crolla più le cose vanno meglio. L’ho capito guardando Hanno ucciso l'Uomo Ragno - La leggendaria storia degli 883, la serie su Max Pezzali e Mauro Repetto. Per uno che cresce sentendosi un po’ l’Alain Elkann che legge Proust in treno non serve un bagno di umiltà, ma il primo album degli 883. Serve capire com’è nato e perché, cosa c’è dietro, la voglia, la fame, quel che ti pare, ma anche la goffaggine dei sentimenti, l’amicizia, Pavia (la provincia, come la chiamano). Forse non andrò mai a sentire un concerto di Max Pezzali, ma mi sono commesso quando ho capito chi ha ucciso l’uomo ragno (e quando ne ho scoperto l’identità).
Ho riso pensando a quanto avessero torto gli stoici, la virtù non te la porti dietro ovunque tu sia (e infatti Seneca con una mano scriveva eroicamente, con l’altra pregava la mamma di farlo tornare a casa dall’esilio), è lì che aspetta di rivederti, negli stessi posti dove hai vissuto veramente, non in modo letterario e pacchiano, sbucciandoti un ginocchio, annoiandoti mentre giochi a freccette in un bar sperduto e deserto insieme a due gemelli (e lo fai ogni sera, sempre la stessa cosa). Alla fine Kant, che aveva l’atteggiamento del monaco, secondo Schiller, non se ne andò mai dalla sua città e si dice che i campanili sincronizzassero gli orologi quando passava per il centro, tanto era abitudinario. È vero, Max Pezzali e Mauro Repetto hanno cercato di rubare al mondo là fuori un’ora di libertà dalla provincia. Ma han finito per donare un’ora della loro vita, della loro Pavia, a tutto quel “fuori”, al mondo che stava a guardare. E capisci anche questo: dove vuoi fuggire. Da cosa. Perché. Sono tutte le stupide domande che non ci poniamo mai quando partiamo.
Crediamo che basti vivere a Bologna per essere Francesco Guccini, che serva andare a Roma per girare un grande film neorealista. O che serva andarsene all’estero per scoprire il mondo. Ma quanto sappiamo di quello che ci lasciamo indietro? Chi abita dietro la scuola dove siamo andati per cinque anni? Ora che giochi ci sono nei parchi pubblici? Il treno passa sempre allo stesso orario? Esistono ancora i biglietti dei treni cartacei venduti al tabaccaio? A Bologna la maggior parte del tempo le chiese son tutte chiuse. Da dove vengo io non sono chiuse mai. Forse perché quel che hanno da dire non entra nella navata e spalancano le porte per non esplodere. Bellissimo commuoversi a San Pietro, davanti alla pietà. Ma basta un Capellone affrescato dagli allievi di Giotto (della scuola riminese), alle tre di pomeriggio, poco prima di tornare a ripassare l’elettromagnetismo per il compito di fisica che andrà male, per sentire il cuore cedere un poco.
Torniamo a Max Pezzalli e Mauro Repetto. Loro lo hanno capito senza dover scomodare chi ho scomodato io, che ancora non sono tanto coraggioso da accettare che si possa pensare la cosa giusta anche senza aver letto centinaia di libri. Bello quando Repetto suggerisce a Pezzali di cantare in italiano: è come parliamo. Non è una cosa da poco. Loro dicevano “non me la menare”. E io? Non lo ricordo più; come si diceva, quand’ero con i miei amici, “non me la menare”? Non lo so, mi sforzo, non riesco a ricordarlo. E allora per un attimo, ascoltando Non me la menare degli 883, mi dico: forse anche io dicevo così. Mi hanno restituito un pezzo di verità, lo hanno fatto senza alcuna pretesa, con un giro di accordi che non mi dice nulla. E mi torna in mente una frase che ripete sempre mio padre, è di Lucio Dalla: “Ma l’impresa eccezionale, dammi retta è essere normale”. Ho scoperta gli 883 dopo Nick Cave e Fabrizio De André: sono andato indietro? No, semplicemente più a fondo.