Bisogna leggere i grandi per superare dogmatismo e semplificazioni che invece di facilitare la comprensione la eliminano, sostituendola con banalità e deserti intellettuali. Come un vaso sotto la pioggia, con il sottovaso che si riempie di acqua e fa marcire le radici, il dibattito culturale è diventato un unico grande nonnulla e, così, anche i libri, la bibliografia minima dell’intellighenzia (ora anche quella di destra) ai tempi di Giuli. Perché vale la pena notare che il ministro parla come parlano i filosofi di sinistra, ovvero coloro che hanno sdoganato il populismo filosofico. Luca Ricolfi si muove da sempre in direzione ostinata e contraria, una volta tanto vale la pena di sottolinearlo. Lo fa da anni suo quotidiani per cui scrive (soprattutto su La Ragione) e lo fa altrettanto nei libri a cui lavora in autonomia o con sua moglie, Paola Mastrocola, altra estremista moderata (per usare un’espressione che una volta lessi in un libro di Michael Huemer, Il problema dell’autorità politica, poiché, si scriveva, le idee estreme non sono necessariamente sostenute da persone estreme; in altre parole, ciò che consideriamo estremo talvolta è semplicemente quanto resta fuori dalla finestra di Overton, che stabilisce – nelle scienze politiche – i confini oltre i quali certe idee iniziano a non essere considerate apprezzabili dagli elettori). Bene, nel suo ultimo libro l’analista inventa una nuova categoria, migliore del “politicamente corretto”: il “follemente corretto”, che dà il titolo al saggio (pubblicato in Italia, come tutti i suoi libri più recenti, da La Nave di Teseo). È quasi la stessa cosa, salvo per un particolare: ciò che è folle non è propriamente politico. Non esiste una politica della follia tale per cui essere folli può essere legittimamente considerato un gesto politico (la follia, al massimo, è l’eterna marginalizzata, come sostiene Foucault, dalla politica).
Tuttavia, anche la follia, come la politica, può generare gerarchie e potentati, in particolare due secondo Ricolfi: “Le vestali della Neolingua” e “le lobby del Bene”, in sostanza la conseguenza naturale di quel sentimento che già Leonardo Sciascia aveva sostenuto caratterizzasse la sinistra: una nostalgia dell’Inquisizione. Una religione (come per Ayn Rand era il comunismo, altra filosofia del correttismo ingenuo, che va dalla difesa della piena uguaglianza all’invidia sociale), dunque, struttura, un sistema difficile da attaccare e in grado di alimentarsi anche grazie ai propri avversari. Avversari che spesso, a dire il vero, senza argomenti, la cui unica linea di difesa è lottare contro la censura (quando poi vorrebbero censurare, a loro volta, ciò che non apprezzano; come accade con i Repubblicani in America e in Italia con la Lega e i presunti libri gender nelle scuole). Avversari, soprattutto, che in luogo di una tesi sfruttano l’offesa, questa sì innalzata a nuova categoria politica, in Italia ancora più ridicola perché dovrebbe scimmiottare il Secondo emendamento americano. Avversari di cui Ricolfi parla con intransigenza, dimostrando ancora una volta che i suoi libri non sono, come crede la nuova sinistra, un piacere alle destre (critiche che iniziarono a circolare dopo Il danno scolastico, un libro mai veramente smontato, nonostante i tentativi dei sostenitori della scuola democratica, Christian Raimo e Vanessa Roghi). Così si riferisce ai nuovi modelli del politicamente scorretto: “La trasformazione del dissenso in odio, e dei dissenzienti in odiatori facilmente stigmatizzabili e perseguibili, trae enorme giovamento dal modo in cui la destra conduce la sua battaglia contro il follemente corretto. Un modo troppe volte intriso di aggressività, cattiveria, sarcasmo, rinuncia a comprendere le ragioni dei difensori del follemente corretto. L’ostilità con cui politici e giornalisti di destra parlano di gay, lesbiche, transessuali, migranti non fa che agevolare la demonizzazione e talora la criminalizzazione del dissenso. Da questo punto di vista, personaggi come Salvini e Vannacci, con il loro continuo provocare e offendere, funzionano come preziosi alleati del follemente corretto, che li può usare come prove a contrario delle proprie buone ragioni. Come a dire: se l’alternativa al follemente corretto sono loro, allora teniamoci il follemente corretto”. Potrebbe valer la pena, a partire da questo contrasto, dimostrare quanto la nuova categoria del follemente corretto sia fruttuosa: Salvini e Vannacci sono “il follemente scorretto”. Mentre parlare di “politicamente scorretto” potrebbe farceli immaginare come gli eroi di questa storia, immaginarmi come degli apologeti del follemente scorretto ci aiuta a capire cosa questa macrocategoria e il suo opposto abbiano estromesso dalla riflessione politica contemporanea: la ragione.
Secondo Ricolfi, comunque, un antidoto potrebbe esserci, ed è sostanzialmente il farmaco della Prima Repubblica, o meglio della cosiddetta sinistra ortodossa che, secondo il sociologo, Elly Schlein potrebbe tornare a rappresentare. La conclusione a cui arriva, in effetti, sembra combaciare, almeno in parte, con quella di altri critici da sinistra del follemente corretto, basti pensare a Carl Rhodes e al suo Capitalismo woke o al recente Guerre culturali e neoliberismo di Mimmo Caggiano. È anche quella sostenuta, pur non immaginandola come alternativa alla cultura woke (ma solo come unica possibilità di salvezza per le sinistre) da Stefano Bonaga o Luciano Violante quando denunciano la scomparsa dei cosiddetti “corpi intermedi”. È l’isocrazia di Bonaga la speranza a cui Elly Schlein potrebbe e dovrebbe recuperare (e farà piacere a Ricolfi sapere che Bonaga, in effetti, ha tentato di consigliare Schlein e Pd in modo che si potessero muovere in questa direzione, maggiormente partecipativa). Così Ricolfi: “Il futuro del follemente corretto è perlomeno incerto. Può darsi che, accecata e confusa da una stampa progressista che vede solo “diritti, diritti, diritti”, la sinistra continui a non accorgersi che il follemente corretto la allontana dalla gente comune, e continui sulla strada di sempre. Ma è anche possibile che il percorso di ascolto dei ceti popolari avviato da Elly Schlein non sia di pura facciata, e alla fine consenta al follemente corretto – quatto quatto – di scivolare fuori dall’agenda della sinistra”.