Si potrebbe imputare l’assoluta cacofonia del periodare di Andrea Bajani ad una mancanza di senso dell’armonia, più che a una sciatteria lessicale colpevolmente praticata nella stesura del suo ultimo romanzo, ciò sarebbe forse più nobile nei suoi confronti e nei confronti dei tanti lettori cui viene servito sotto un vassoio d’argento un romanzo che si compone di frasi una più sgradevole, dissonante e stonata dell’altra, e che dilaniano, col loro andamento, la lingua stessa, insieme al senso dei concetti e delle immagini cui quelle frasi dovrebbero rimandare. Passi pure il trito motivetto che fa da sfondo alla trama del libro, noiosa riproposizione di una famiglia italiana dominata da un padre “patriarca”, maschilista e violento, topos letterario in voga e a prova di vendita; passi pure, perché ogni storia è antica ed è già stata scritta, ma scriverla di nuovo sarà sempre possibile e lecito se ciò verrà fatto con maestria, eleganza, capacità di affabulazione e di intreccio, insomma con stile. Il punto è che è proprio la scrittura a mancare, nel caso di specie, manca tutto quel che ci si aspetterebbe da un buon romanzo. Facciamo qualche esempio. “Tornerai a trovarci?” mi ha chiesto avanzando verso di me mentre io mi sfilavo da casa. Credo mi abbia guardato negli occhi, ma è più una supposizione che un ricordo appannato, visto che invece io non la guardavo”. Ecco, non occorre essere assidui frequentatori della prosa di Flaubert, né aver letto per intero Nabokov, o Faulkner, per avvertire immediatamente lo stridio di una imperdonabile stonatura, leggendo queste frasi, che provengono niente meno che dal libro vincitore del Premio Strega 2025, L’anniversario, di Andrea Bajani, edito da Feltrinelli. “Mio padre, in sintesi, aveva bisogno di spaventare per sentirsi amato, anche se sapeva per istinto che nessuno spavento sarebbe stato sufficiente a farsi amare quanto lui voleva, e che anzi avrebbe provocato (..) in definitiva disamore”. Un’altra stilettata nel cervello, o tra le costole, questa volta: che fastidio quell’ “in definitiva”, e quel “in sintesi”, locuzioni che si confanno al tono di una qualsiasi conversazione intavolata al bar, o al linguaggio aziendale, se si preferisce, o ancora al parlato del commercialista che si sbriga a illustrare ad un cliente distratto il risultato dei suoi conteggi mefistofelici. “Nei mesi successivi a quello che ancora non sapevamo sarebbe rimasto l’ultimo pranzo insieme, mia madre seguì il suo primo istinto e mi telefonò un paio di volte da sola”. Quel “rimasto” era quanto di meglio lo scrittore avesse a disposizione per significare la definitività del momento che voleva suggerire al lettore? Andare ancora avanti sarebbe noioso. di conforto ricordare, in ogni caso, che nel mentre che vengono premiate tali opere di discutibile qualità, da qualche parte, nel nostro paese, esistono Salvatore Niffoi e Dario Voltolini e Veronica Tomassini e Aurelio Picca e Yari Selvetella, per fare alcuni nomi, che scrivono e costruiscono i loro acrobatici e adamantini carillon di storie e visioni, trame e destini.

Si dice che gli scrittori siano esseri umani dotati di “orecchio olimpico”, che le parole facciano con loro quel che i suoni del mondo fanno con l’anima dei musicisti: li assediano, costringendoli ad un lavorio di scavo e di “distillazione”, fino a quando quelle, le parole, come le note, emergono dalle loro imperscrutabili lontananze e si dispongono, attraverso partiture segrete, sulle righe di un pentagramma che conferisce al fraseggio quel ritmo fluente, quella cadenza esatta, quella eleganza, che è la sola tensione verso cui tenda chiunque faccia corpo a corpo col linguaggio e con i sensi per provare a decifrare quel che sosta nell’invisibile, aspettando di essere trovato. Questo sforzo di traduzione, di ricerca della armonia, del “legame” assonante, suadente, tra le parole, la necessità di operare giornalmente una accordatura e una cesellatura che consegnino il pensiero alla sua foggia migliore, e il periodare al suo più alto grado di grazia, in altre parole il necessario bisogno di lavorare sulla lingua attraverso un artigianato che deve permeare e assistere anche il più aereo e straordinario talento letterario, sembra sia una pratica considerata facoltativa, oggi, in troppe ipotesi, dai giurati dello Strega; opzionale, evidentemente non dirimente per conferire ad un libro l’agognato riconoscimento che dovrebbe certificare la migliore espressione dell’arte narrativa nel nostro paese. Fortunatamente, la letteratura non è sinonimo di narrativa, e viceversa, e quand’anche, in alcune ipotesi, tali sostanze coincidano, ciò avviene sempre per tramite di imponderabili combinazioni di elementi che generalmente avvengono lontano dal mainstream, dal contrabbando di storie e storielle che i pur abilissimi editor dei gruppi editoriali in molti casi confezionano a favore di telecamere e di lettori annoiati, lettori della domenica o da ombrellone, a cui la prosa stonata di molti narratori odierni consentirà senza troppo sforzo di gridare al miracolo. La narrativa che viene premiata dagli illustri mandarini di cui sopra, ahinoi, restituisce un ritratto di questa arte che potremmo definire sciatto, prolassato, claudicante. Il modesto romanzo di Bajani, non me ne vorrà l’autore se adopero tale aggettivazione a proposito della sua creatura, denuncia ancora una volta la dolosa svendita del premio Strega, e la “reità” della sua giuria, dimentica di aver premiato negli anni nomi del calibro di Ortese e di Moravia, Comisso e Buzzati, Bassani e Zòlla, e dimentica, anche, di aver ricevuto tale testimone dai suoi predecessori.

Proporrei di radere al suolo per intero lo stemma, il salotto, i consigliatori della domenica, le effigi, i simboli e gli stendardi, e rifondare daccapo un premio Strega sulle ceneri di quello ucciso, oppure di crocifiggerlo e debellarlo, per sempre, senza troppi cordogli. Chi avrà avuto il privilegio di veder riconosciuta la sua maestria, attraverso l’antico riconoscimento, nel corso degli scorsi decenni, potrà tenersi stretto su nell’alto dei cieli o in terra l’onore e la considerazione meritati, perché a tributarglieli furono devoti conoscitori dell’arte letteraria, prosecutori di un’opera di salvaguardia che solo gioielli di creazione artistica come erano i romanzi dei vincitori di un tempo potevano meritare. A tutti gli altri, (salvo alcune ipotesi di evidente coincidenza tra qualità dell’opera premiata e verdetto espresso dai giurati), possiamo semplicemente augurare che lo schianto che avverrà quando cadranno dalle farlocche vette di paradiso su cui saranno stati fatti appollaiare dai plaudenti critici di cui sopra, quando arriverà la piena del fiume “Lingua”, indignato, a spodestarli dai loro trespoli, non faccia troppo male.
