The Brutalist agli Oscar. Il film di Brady Corbet è stato, fin dal primo momento in cui è stato presentato a Venezia 81, un oggetto di culto annunciato. Adrien Brody vincerà l’Oscar, il film girato in 70mm da un Maestro incredibile avrà delle immagini folgoranti, e così via. Ma di fatto non avevamo capito che si trattasse di un film senza architettura. Dolore, morte, disgrazia e a malapena la comparsa di imponenti opere brutaliste. Seguiamo tre decenni di vita dell'architetto ebreo László Tóth, emigrato dall'Ungheria negli Stati Uniti nel 1947 dopo essere stato detenuto nei campi di concentramento tedeschi. Un uomo che arriva in America, viene accolto dal cugino Attila e trova finalmente un primo incarico: la ristrutturazione di una libreria commissionata dal milionario mecenate Harrison Lee Van Buren. Il successo lo porterà a costruire un centro culturale imponente, destinato a ospitare: biblioteca pubblica, palestra e cappella. Ma tra diffidenze verso gli stranieri, tentativi di alterare il progetto e l'impossibilità di portare con sé la moglie Erzsébet (Felicity Jones) e la nipote Zsofia (Raffey Cassidy), la sua parabola diventa la cronaca di una sofferenza annunciata. Il problema non sono le polemiche sulle incongruenze storiche (di cui vi avevamo parlato qui), né la narrazione romanzata che si prende strane libertà nel ricostruire un'epoca, un uomo, un'idea. Il vero limite di The Brutalist è la sua morale, ridondante e asfissiante, che si insinua tra le crepe della storia e finisce per saturarla, come una colata di cemento che sigilla ogni spiraglio di aria, ogni possibilità di dubbio o di libertà. Come la croce che si forma nell'edificio stretto e claustrofobico costruito da László. Perché tutto fa schifo, gli altri, la vita, il mondo.
Attenzione, spoiler
Tóth, che avrebbe potuto essere un Maestro, un visionario che traduce il dolore in linee, in forme, in volumi enormi, mastodontici, capaci di sfidare il tempo, diventa invece un uomo svuotato, schiacciato da una tragedia incessante (e di cui non sappiamo quasi nulla). La sua è un’esistenza piegata alla disgrazia: i campi di concentramento, il cugino lo accoglie, ma sua moglie lo accusa di molestie; il mecenate Van Buren gli affida un’opera, ma poi lo abbandona; Erzsébet, la donna che ama, riesce a raggiungerlo dopo anni di separazione, ma è ormai distrutta dalla malattia, condannata a un corpo che si spegne prima di lei, mentre László cerca disperatamente di anestetizzare il dolore con la droga. Non c’è redenzione, né catarsi, solo una lenta discesa. E poi, lei: l’intelligenza artificiale. In un film girato interamente in pellicola, in un'opera che si aggrappa alla materia, alla luce, al respiro e agli errori dell'artigianalità di una volta, l’IA compare nella sequenza finale per creare le architetture di László, la sua eredità, i suoi edifici immaginari. Ma cosa resta, davvero, di questo uomo (che forse si ispira a Marcel Breuer)? Segue la parentesi sionista, il desiderio di una dimora, il richiamo alla Terra Promessa che rimane solo un concetto astratto, privo di radici, sospeso nel vuoto per tre ore e trenta minuti. Più che un film sull'architettura, The Brutalist è il racconto di un genio a cui capita tutto, troppo, senza un senso. Il male del mondo sembra concentrarsi su di sè con precisione e alla fine lo ritroviamo vecchio, spento, solo, alla retrospettiva della Biennale di Venezia del 1980 (evento che, nella realtà, sembra non essere mai accaduto). È chiaro che The Brutalist sia un film esteticamente perfetto e che, in un anno di cinema piuttosto mediocre, questo non è certo il titolo da affossare eppure, questa ossessione verso il tragico rende, Toth, egli stesso macchina senza corpo né volto come i critici definivano gli stessi edifici. Dov'è il Brutalismo? Qull'etica, non estetica? Dell'opera-monstre di Brady Corbet, rimane un perfetto regista, i bianchi nudi di Carrara e Adrien Brody con, tra le mani, si spera, l'Oscar.