Insomma, di tutto il Brutalismo, un fascio. Verrebbe da dire. Il film candidato agli Oscar 2025, The Brutalist di Brady Corbet, con un straordinario Adrien Brody protagonista nei panni del visionario László Toth, architetto ebreo ungherese scampato all’Olocausto che emigra negli Stati Uniti per provare a ricostruire la propria vita, ha scatenato il dibattito tra gli esperti di architettura. Perché? Per colpa dei suoi presunti errori clamorosi. In un lungo articolo sul Guardian, il giornalista Oliver Wainwright scrive: “Non c’è nulla di più irritante per un gruppo di cultori di nicchia che vedere il proprio mondo raccontato dal mainstream… e raccontato male. The Brutalist sbaglia un sacco di cose”. E del resto, anche il critico cinematografico Marco Giusti aveva recentemente criticato l'uso dell’intelligenza artificiale per la ricostruzione di alcune architetture nel film. Perché ricorrere a uno stratagemma costoso e artificiale quando si potrebbe pagare per avere l'arte vera in un film che, sostanzialmente, dovrebbe trattare proprio di quello? Se da una parte l’Academy e la critica hanno esaltato il film, inserendolo tra i più riusciti degli ultimi anni, dall'altro gli architetti sono letteralmente impazziti. In un recente articolo dal titolo “The Brutalist interpreta male l’architettura”, sul The Washington Post, leggiamo: “La rappresentazione dell’architettura come professione da parte di Corbet è dolorosamente datata, basata su una manciata di figure messianiche del XX secolo che cercavano non solo di costruire edifici, ma di rifare il mondo”. Ancora, nella conclusione: “Questo non è un film sull’architettura, o lo è solo nominalmente”. Secco il Financial Times, che a proposito di The Brutalist afferma: “Propaga un cliché colossale”. Intanto, per il Guardian, tre dei più importanti critici d’architettura americani si sarebbero addirittura riuniti per registrare un podcast interamente dedicato al film, intitolato Why the Brutalist Is a Terrible Movie. “Per quasi un’ora”, hanno detto, “abbiamo smontato pezzo per pezzo ogni aspetto della pellicola”. Gli esperti avrebbero criticato la rappresentazione stereotipata dell'architetto come genio solitario e maschile, la grafica dei titoli di coda ispirata al Bauhaus e, infine, l’assurda idea che qualcuno potesse progettare un centro comunitario e una cappella ispirandosi alla struttura di un campo di concentramento nazista.
Non sono mancate le critiche sui personaggi e sui riferimenti a figure come Marcel Lajos Breuer e László Tóth. Nel film, a Tóth viene chiesto di progettare una chiesa brutalista su una collina in Pennsylvania, quando nella realtà si trattava di un progetto in Minnesota, commissionato da monaci benedettini e non da un miliardario psicopatico. Inoltre, scrive il Guardian, il personaggio di Tóth, interpretato da Brody nel film, esplode regolarmente in scenate da diva, urlando ogni volta che le cose non vanno come vuole, quando invece, stando ad alcune testimonianze, l'architetto era un uomo parecchio diverso ed esperto nel gestire i necessari compromessi di un progetto edilizio, rimanendo sempre fermo nelle sue convinzioni. Tra le tante incongruenze riscontrate, l'anacronismo più evidente riguarderebbe il finale di The Brutalist, basato sulla prima Biennale di Architettura di Venezia del 1980, un evento che fu curato da Paolo Portoghesi e che aveva come tema il rapporto tra passato e presente nell'architettura. Per l'occasione, furono invitati 20 architetti internazionali come Frank O. Gehry e Rem Koolhaas. Il risultato fu una strada di 70 metri alle Corderie dell’Arsenale, con facciate di edifici che proponevano una nuova visione dell'architettura. Nel finale del film di Corbet, invece, il regista ha immaginato che durante la Biennale fosse stata organizzata una retrospettiva eroica di Tóth. Eppure, la rivalutazione del brutalismo e dei suoi edifici in cemento sarebbe avvenuta soltanto trent'anni dopo dato che, negli anni Ottanta, il movimento era per lo più disprezzato e spesso associato ai totalitarismi o al degrado urbano. Gli edifici brutalisti visti come macchine, facce, corpi senza anima né volto. Detto ciò, con The Brutalist come con il recente caso di M - Il figlio del secolo si ripete la solita storia, e quella domanda. Quanto è giusto che un film si attenga alla storia e quanto invece il suo regista e gli sceneggiatori possono essere liberi di fare quello che vogliono? Specie se i risultati sono a dir poco straordinari, come nel caso del film di Corbet e della serie di Wright. Alla fine, ricordiamo che esistono i libri, le testimonianze, i banchi di scuola per studiare le cose, per approfondire la realtà, e per fortuna esiste il cinema per interpretarla come ci pare.