L’intervista rilasciata da Raffaele Morelli al Corriere della sera ha aperto alcuni dubbi sulle dichiarazione rilasciate, soprattutto per quanto riguarda l’uso degli psicofarmaci e l’approccio terapeutico alla depressione e al disagio mentale. Ne abbiamo parlato con il neurologo e scrittore Rosario Sorrentino, che è totalmente in disaccordo con lo psichiatra. “Lanciare certi messaggi a cuor leggero è pericoloso”, ci avverte. Il focus della psichiatria deve restare sulla biologia del cervello, senza prescindere mai dalle neuroscienze. Ecco perché certe dichiarazioni sono da “neo-sciamanesimo”, mentre altre sono semplicemente “incommentabili”. La fede, la scienza, i guru e la senescenza: un dialogo sulla salute mentale e sul modo in cui andrebbe trattata, per evitare lo stigma e il tracollo di una società sempre più in bilico.
Dottor Sorrentino, ha letto l'ultima intervista di Morelli sul Corriere?
Guardi, trovo veramente strano, e in un certo senso inquietante, lanciare certi messaggi con tanta leggerezza ancora oggi, perché si creano le condizioni culturali per lo stigma, l'etichettatura sulla fronte, un marchio che produce tre effetti negativi. Il primo: negare l'esistenza della malattia psichiatrica e di tutti i disturbi correlati. Il secondo: allontanare i pazienti dalle cure mediche e dalla farmacoterapia, che spesso è fondamentale e imprescindibile. Il terzo, ancora più pericoloso: esortare le persone ad abbandonare le loro terapie, generando conflitti anche in ambito familiare. Se una persona non conosce il significato della sofferenza mentale e ha un congiunto che segue una cura per una malattia psichiatrica, la prima cosa che potrebbe dire è: vedi? Te l'avevo detto che non devi prendere le medicine.
E quindi?
Questo crea un ulteriore doppio stigma: quello interno, perché chi soffre si sente declassato a cittadino di serie B, e quello esterno, causato dal giudizio pubblico che demonizza queste malattie. Chi fa questo lavoro dovrebbe riflettere prima di parlare, perché ciò che diciamo viene interpretato e deformato. Se poi si toccano certi tasti, bisogna stare attenti: l'abbandono delle terapie e l'allontanamento dalla farmacoterapia significano condannare il paziente a una lunga sofferenza, magari passata nel “salotto dorato” dello psicologo di turno per 10, 15, 20 anni, senza risolvere nulla e cronicizzando la malattia. Oggi i dati più attendibili ci dicono che dal disagio mentale si può uscire con una farmacoterapia adeguata, mirata e fondamentale per il paziente, insieme a una psicoterapia breve cognitivo-comportamentale e a uno stile di vita corretto.
Morelli ha detto che la scienza ci ha insegnato come combattere i batteri, ma per i mali dello spirito il nesso di causalità non c'è. Ancora questo riferimento allo spirito, rispetto al cervello come organo, no?
Ecco, questo è ancora più inquietante. Quando un uomo di scienza utilizza concetti come spirito e anima, vuol dire che in quel momento sta facendo un altro lavoro: sta togliendo il mestiere ai sacerdoti. La scienza ha la sua dignità e deve esprimersi con categorie di pensiero legate alla biologia e al funzionamento del cervello. Le neuroscienze oggi ci raccontano moltissime cose, ma per poterle comunicare bisogna studiare. Chi si occupa di psichiatria e neurologia, discipline che fanno parte delle neuroscienze, deve stare molto attento a usare certi concetti che, sebbene possano avvicinare al pubblico, rischiano di essere fuorvianti. Altrimenti, non si distingue più tra malattia, disturbo e disagi esistenziali di natura diversa.
Morelli cita un rabbino che diceva: “Tutti i giorni cerco la tristezza”, aggiungendo che “la depressione è una struttura dell'essere”. Da un punto di vista più psichiatrico e meno religioso, che senso ha?
Io troverei molto più coerente se alcuni psichiatri, e ce ne sono, a un certo punto della loro carriera si convertissero alla religione, anziché rubare il lavoro a preti e rabbini, verso i quali nutro un profondo rispetto e che se ne occupano da un altro punto di vista altrettanto importante. Non ci sarebbe nulla di male: potrebbero tranquillamente fare altro. Ma ripeto, non è questo il loro ambito. Il loro, il nostro ambito è scientifico. Ognuno può avere le proprie idee religiose, che vanno rispettate, ma farne un repertorio di concetti e ragionamenti scollegati dalla scienza è pericoloso. Scienza e fede sono due compartimenti mentali distinti. Quando affrontiamo un paziente, dobbiamo ragionare con strumenti scientifici, altrimenti rischiamo di confondere il disagio mentale con altre dimensioni. Purtroppo, esistono pazienti che si rivolgono a esorcisti quando invece soffrono di patologie psichiatriche non diagnosticate o sottovalutate, che possono poi sfociare in situazioni pericolose per sé e per gli altri. Così facendo rischiamo che il disagio mentale diventi un groviglio caotico e la persona, già disorientata, non sa più dove cercare aiuto, rischiando di finire nelle mani sbagliate.
Nell'intervista si dice che il consumo di psicofarmaci è aumentato di otto volte da quando si è laureato. È giustificata questa crescita o c'è davvero un problema?
L'Organizzazione Mondiale della Sanità prevede che entro il 2030 il disagio mentale sarà il disturbo più diffuso sul pianeta. Stiamo parlando di domani, di un futuro ormai vicinissimo, e questo significa che c'è qualcosa di sbagliato nell'approccio con cui affrontiamo la vita. Di vero c’è che l'aumento dell'uso di benzodiazepine, che non amo, è un problema: sono farmaci che creano dipendenza e non risolvono nulla. Ma è un altro discorso rispetto ai farmaci usati per trattare disturbi come il bipolare, che colpisce un milione di persone, il 70% delle quali non sa di averlo. La diagnosi di solito arriva con 10 anni di ritardo, mentre farmaci stabilizzatori dell'umore come il litio potrebbero migliorare radicalmente la loro vita. Ciò che deve preoccuparci non è l'uso corretto dei farmaci, ma la non-diagnosi. Se si parte dalla biologia, il farmaco aiuta le persone a uscire dal tunnel della sofferenza.
Morelli sostiene che la cultura ci obbliga a mostrarci felici, ma la tristezza ha un valore positivo. Fino a che punto?
Bisogna fare chiarezza: la malinconia e la tristezza transitoria sono normali. Ma attenzione, perché a volte sono solo la punta dell’iceberg di situazioni più complesse. Certe interviste su quotidiani importanti rischiano di essere pura autopromozione. Nel nostro Paese sta avanzando un nuovo “neosciamanesimo”: persone che propongono soluzioni magiche per il disagio mentale. Ma il cervello è un organo e, quando ha uno squilibrio chimico o biologico, senza cure adeguate possono manifestarsi comportamenti e decisioni inquietanti. Una terapia mirata può prevenire tutto questo e riportare il paziente a una vita normale. I guru, le eminenze grigie e gli sciamani che avanzano fanno finta di non capirlo, per portare acqua al loro mulino, e questa è un'operazione culturale che non fa bene a nessuno, perché porta a colpevolizzare chi si deve curare.
Infine, Morelli sostiene che le donne dopo i 40 anni sono più infelici perché non ricevono più complimenti. Un'esasperazione?
Questa affermazione è imbarazzante e, sinceramente, incommentabile. Da professionista che si occupa tutti i giorni di queste tematiche, mi mette a disagio. Se l'ha detta, non trovo le parole giuste per commentare. Sarebbe il momento di smetterla con certi psichiatri, per fortuna pochi, sempre pronti ai sermoni e ai predicozzi no-stop, perchè si trasformano negli educatori del popolo italiano per ogni età e generazione che in modo sprezzante emettono anatemi e sentenze che trasudano di disprezzo e fastidio verso gli altri. Un impulso, il loro, che con l’avanzare della senescenza degli anni non riescono, ahimè, a inibire.