L’orto americano è un incubo pieno di fascino, fatto di mostri che stanno nella testa e in una società febbricitante del Dopoguerra. C’è Lui, un ragazzo senza nome che ha gli occhi di un eterno bambino solo, lo straordinario Filippo Scotti. C’è in un certo senso anche una Lei, l’ombra di lei, la ricerca di una donna forse mai realmente incontrata, appannaggio di mille tumulti, il motivo per cui Lui può vivere e può morire. L’odissea del protagonista per trovare quello che resta di una giovane americana è, nella sua prima parte, bellissima. Surreale, quasi. Si compie velocissimo il miracolo del cinema, scena dopo scena, sembra quasi di vedere Hitchcock. E di sentirlo muovere da dentro. Poi nel film tratto dall’omonimo romanzo del Maestro, ci finisce anche un po' di esoterismo, il mistero, l’antica Grecia, il nero profondissimo, il fango. Quando Lui scava sotto terra e trova una cosa, la cosa, tutto cambia. Si torna in Italia, c’è un processo lunghissimo in una seconda parte più classica, statica, ferma, da cui capiamo sin dai primi minuti come andrà finire la storia, intrappolati in un'atmosfera che ci riporta quasi al film di Welles del 1962. E così pensiamo all'età di chi è dietro la macchina da presa, sono più di ottanta, ma stupisce meno sapere il suo nome: Pupi Avati. Suo La casa dalle finestre che ridono, ma anche Aiutami a sognare e tantissimi altri film. La nuova idea del bianco e nero ne L'orto americano, quello bello, quasi liminale, proposto da suo fratello e produttore Antonio, è la scelta perfetta per disegnare le facce rotte di quasi tutti i personaggi. Perché è tutto brutto attorno a Lui. Non c'è posto per la bellezza, anzi questa viene da fuori. Forse dalla “sola casa costruita dove finisce l’acqua del Po e comincia quella del mare”.

Non c’è niente come L’orto americano, non c'è niente nella storia di Pupi Avati che gli somigli, ma c'è sempre lui, riflesso nello specchio. C’è lui nel rosario dei morti, quello che Pupi ha confessato di ripetere ogni notte prima di andare a dormire e che si trasforma nel film in un volume pesante come fosse un'entità a parte, la causa per cui il protagonista di questa storia è finito dentro un ospedale psichiatrico. Perché non si può parlare con i morti, non si può parlare del passato. E poi la verità, la finzione, la verità, la finzione. Ma quello che abbiamo visto è tutto vero? Siamo noi al centro di un incubo infinito degli Avati e se sì, come se ne esce? Nessuno crede al nostro uomo della storia ogni volta che vuole farsi avanti, scuotere la gente, dichiararsi ad alta voce, gli altri lo silenziano, lo oscurano, è pazzo, dicono. Eppure é il solo ad aver risolto l'enigma. Ne L’orto americano il regista sembra stringere il protagonista in continuazione, per non lasciarlo cadere davanti alla tragedia, forte perché poi si muore, per fargli capire, come canta Cosmo, che cos’è l’amore. Di se stesso per se stesso, per i suoi morti, la verità, le sue angosce e le donne: l’amore di Pupi Avati per il cinema.

