Dopo la presentazione al festival del cinema di Cannes lo scorso maggio, l’attesa è terminata: Limonov. The Ballad di Kirill Serebrennikov è finalmente disponibile nelle sale (distribuito da Vision Distribution), pronto a scioccare e indignare, ma anche sbalordire, tanto gli appassionati cinefili, quanto gli sfegatati fan di Limonov, Carrère o di entrambi, i nazional-bolscevichi, i critici, e tutti quelli che ancora, nonostante tutto, hanno una strana fascinazione per la Russia, che anche quest’occasione emerge in una speculare versione di meraviglia e orrore. Limònov – e non Lìmonov, con il giusto accento sulla “o”, come specificato dai primissimi secondi dal protagonista – sarà al cinema in tutta Italia ufficialmente dal 5 settembre, ma è già disponibile in anteprima assoluta in lingua originale in alcune sale.
Kirill Serebrennikov, già molto acclamato per per Summer (2018) e La moglie di Tchaikovsky (2022) si cimenta nell’ardua impresa d’inscenare in due ore e 18 minuti l’incredibile vita Eduard Limonov, una delle figure più controverse del panorama artistico, letterario, ma anche politico, del secondo Novecento, consacrato dall’omonimo libro di Emmanuel Carrère. La trasposizione di un romanzo di tale portata, tanto amato dal pubblico da essere diventato un vero e proprio oggetto di culto, è sempre una gigantesca scommessa; ma a Kirill Serebrennikov l’impresa riesce decisamente bene, tanto che il Limonov sullo schermo, interpretato da Ben Whishaw, non solo si fonde perfettamente sia con il personaggio letterario, che con quello reale, in carne ed ossa, ma riesce anche ad assomigliargli fisicamente in maniera impressionante, soprattutto negli ultimi anni di vita dello scrittore, dove si ha la sensazione di vederlo rivivere, mentre inveisce contro le masse di fronte alla telecamera, chiamando alla rivoluzione.
Sebbene l’inizio risulti un po’ lento - dato che il cast recita in inglese con un marcato (e voluto) accento russo, sforzandosi di dare l’impressione di essere in Unione Sovietica negli anni ‘70, con esiti un po’ macchinosi - mano a mano che il personaggio di Limonov prende vita, lo spettatore viene risucchiato, in un’atmosfera che dalla calma e tranquilla città di Charkiv (dove Limonov vive da giovane, oggi in Ucraina, purtroppo teatro del conflitto), ci catapulta prima nelle rigida e sovietica Mosca, e poi nella sfrenata caotica New York. “Edichka”, da timido e smilzo poetucolo con gli occhialini tondi, diventa un delirante e sregolato freak, che se ne fotte del sistema, delle regole e di qualsiasi tipo di convenzione sociale, dove sulle note di Walk On The Wild Side in una lurida vasca di scarafaggi, si compiace della sua voluta “immoralità”, tra locali newyorkesi, cinema a luci rossi e scene di sesso sfrenato con la sua Lenochka (Elena, sua prima moglie e suo grande amore, interpretata da Viktoria Miroshnichenko) mentre si ripete quanto Solzhenycin sia solo un noioso sfigato.
“What The Fuck Wants Freak Like Me?” Si chiede, sfidando il destino, mentre scopre i contrasti del blocco occidentale a cavallo tra anni ’70 e ’80, in piena guerra fredda, in un mondo in cui tutto diventa “bello”, persino la spazzatura, che diventa anche il suo giaciglio mentre consuma un rapporto omosessuale con un barbone afroamericano sulle note di Waiting For My Man dei Velvet Undergroud, vicenda ben raccontata nel romanzo di Carrère, che ha originato anche “Al poeta russo piacciono i grandi ne*ri”. “ ‘Baby, baby…’ Eduard si china e gli sfila la cintura, impaziente di sapere se è vero quel che si dice del caz*o dei neri…” (Limonov, Emmanuel Carrère)
Se c’è una pecca da trovare è forse il fatto che proprio il periodo americano diventi centrale nell’intera pellicola, lasciando invece minore spazio ai suoi viaggi in Francia e al ritorno in Urss, che dopo il lento declino post perestrojka, accoglie Limonov come uno “scrittore-eroe”. Proprio lui, che vediamo dedicare tutte le energie alla disperata e costante ricerca della fama, dopo aver provato mille lavori, cambiato mille volti, dal metalmeccanico, al ladro, dal maggiordomo che pulisce il vomito da terra, allo scrittore fallito e disperato, finalmente nella “sua” Russia, dove arriva a chiedersi: “Cosa c’è dopo la fama mondiale?”. Una domanda a cui non trova risposta, ma che ben presto sfuma, dopo che viene incarcerato in Siberia per le rivolte con il partito nazional-bolscevico nel 2000, quando al potere sale Vladimir Putin (che pur non viene mai nominato nel film, se non col distante appellativo di “il presidente”).
Sarebbe interessante chiedere a Emmanuel Carrère cosa pensi di questa trasposizione del suo romanzo, pur considerando che lo stesso Carrère, a un certo punto, appaia a sorpresa come inedito cameo in una scena ambientata in una mensa post-sovietica, intento a rincuorare un Limonov invecchiato e confuso, che non riconosce più il suo Paese. L’essenza di Eduard Limonov, nonostante tutto, resta però una: “La Russia è tutto. Tutto il resto è niente e la storia tornerà a spaccarvi il culo”. È con questa sovversiva battuta che si conclude infatti la pellicola, con un rimando, nemmeno troppo velato, alle tragiche vicende politiche che riguardano l’attualità, dove è risaputo che nei fatti Limonov sostenesse l’invasione russa della Crimea nel 2014. A prescindere da questo però, lasciando da parte la politica, per un attimo, il film di Serebrennikov, pur con tutte le sue contraddizioni, supera l’aspettativa e anzi, si rivela essere forse uno dei rarissimi casi in cui il personaggio cinematografico è più simile a quello reale, di quanto non lo sia quello letterario. Un Limonov violento, mostruoso, sregolato, ma anche timido e innamorato, nei suoi momenti di quiete, che non deve spiegare niente a nessuno, che non segue il buon costume e la morale, ma che provoca, indigna e protesta: “noi faremo la rivoluzione”.