Roma Ovest, interno giorno. Un divano. Alle spalle dell’uomo disteso una grande tela di Mario Schifano mostra un’aquila che aggredisce un leopardo. Non è ancora il clou della Mostra del cinema di Venezia 81. La “plebe” social, con intenti da estetisti del glamour mediatico, ha intanto modo di commentare l’ormai, almeno alle loro pupille, irriconoscibilità somatica di Angelina Jolie, diva tra le dive presenti immobili, estatiche, sul tappeto rosso. Nell’altrove da rotocalco della cronaca nera si ragiona invece sul sosia nazionale di Johnny Depp che ha avuto modo di affacciarsi sulla scena del delitto del momento. Chi scrive questa nota indossa un kimono, senza tuttavia la pretesa di assomigliare a Yukio Mishima perso nel vortice dell’estate infuocata capitolina. Chi scrive questa nota, irresponsabilmente, a un certo punto, d’istinto, mosso dalle turbine dell’idiosincrasia subculturale, orgoglioso di sé stesso, decide di esprimere sul profilo Instagram ciò che riterrebbe un vero supplizio per la sua persona, per il suo status di aspirante filosofo destinato a indagare l’ontologia della mediocrità altrui: essere, appunto, costretto a presenziare per ragioni insondabili proprio alla Mostra del cinema di Venezia. Da questo momento in poi la prima persona appare d’obbligo nel nostro racconto-invettiva: mai e poi mai vorrei trovarmi lì, sì, al Lido, e in questo mio pensiero, si sappia, non c’è nulla di estremo, non coincide neppure con ciò che lo scrittore Elémire Zolla riteneva umanamente abbietto, cioè l’esistenza stessa del cinema: ritrovarsi in una sala buia a guardare immagini, parvenze, ombre cinesi, ombre hollywoodiane, ombre di Cinecittà che scorrono su uno schermo; il pregiato volume nel quale Zolla esprime tale distanza siderale dall’intrattenimento filmico si intitola, lo diciamo unicamente per chi fosse interessato ad approfondirne il nodo, Volgarità e dolore (Bompiani, 1962), lo stesso anno, si noti, dell’uscita de Il sorpasso. Più semplicemente trovo imbarazzante l’entusiasmo, diciamo pure “mondano”, che taluni e talune creature, provetti turisti della cultura, esprimono rispetto alla dimensione pubblica, ai loro occhi addirittura auratica, che si esprime in modo assembleare nei festival cinematografici. Quanto a me, ho già dato: era il 1978 quando, di ritorno da Dubrovnik con tre sciagurate amiche mi ritrovai proprio in fila al Lido di Venezia. Il titolo quel giorno in programmazione, forse l’unico cui erano disponibili i biglietti, di fattura messicana, tratto da un racconto del Premio Nobel Mario Vargas Llosa, Los cachorros, cioè i ragazzini, i pischelli si direbbe nell’Urbe.
Sento l’obbligo di restituirne, condividerne la trama: il dodicenne Cuellar, dopo un allenamento di calcio, mentre si fa la doccia, viene aggredito da un dobermann che lo mutila gravemente divorando i suoi genitali. Ciò che rimane della sua impossibile futura esistenza sessuale, coitale, è bene che sia lasciato all’immaginazione. Ancor di più nel nostro caso, come diceva Walter Veltroni: non si spezza un’emozione. Non è davvero il caso di svelare, da infami, il finale, d’altronde spoilerare è ritenuto il peggiore dei peccati capitali nelle società altamente spettacolari e spettacolarizzate. Il titolo italiano dell’opera appare altrettanto didascalico: Eviration - Bramosia dei Sensi. Sia detto per completezza cine-storiografica, ignoriamo se il dobermann messicano fosse parente di Ivan il terribile 32° appartenuto invece alla contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare evocato ne Il secondo tragico Fantozzi, fucilato infine sulla Piazza Rossa come “nemico del popolo”. Ogni possibile riflessione sulla travagliata esistenza del ragazzo messicano privato del pisello tormenterà il sottoscritto e le sue amiche accompagnatrici per il resto del viaggio. Intendiamoci, non ritengo che storicamente l’intera cinematografia planetaria, da Georges Méliès a Ciro Ippolito, possa essere assimilata alla pellicola ispirata da Vargas Llosa, resta però che immaginare l’entusiasmo di chi si reca a Venezia nei giorni della Mostra, nella convinzione che si tratti di un evento necessario, culturalmente, religiosamente, mondanamente imperdibile, suscita nel profondo della mia persona raccapriccio. Altrettanto raggelante, spettrale, sempre ai miei occhi l’immagine del presidente della Biennale, Pietrangelo Buttafuoco, intento a scendere dal taxi come un tempo il conte Volpi accompagnato dal ministro della propaganda del Reich Joseph Goebbels in uniforme bianca di gala estiva. In questo senso sono felice che un amico scrittore, l’illustrissimo barone Ottavio Cappellani, abbia pubblicato su Instagram contestualmente al mio post in kimono giapponese, uno scatto che lo mostra nelle ore notturne davanti un distributore di benzina e gasolio posto nel contado Etneo, indicando invece provocatoriamente che si trattasse del Lido di Venezia. Riporto altrettanto, qui, il mio commento di siamese vicinanza ideologica al Cappellani: “Immagino, caro Ottavio, che il film che sta per essere proiettato si intitoli pertinentemente Miscela al 3%?”. Le mie parole, si sappia anche questo, escludono da ogni possibile aristocratica reprimenda le ragazze i ragazzi, creature innocenti, inermi, struggenti anatroccoli con zainetto, che sempre lì a Venezia giungono per ottenere, che so, giusto un selfie con Amedeo Nazzari o con Yvonne Samson o magari con Pablito Calvo, indimenticato protagonista di Marcellino pane e vino, o ancora si accostino a Polidor, lui che in Accattone di Pier Paolo Pasolini ha il ruolo di becchino nel sogno del protagonista Franco Citti.
Scorgo bovarismo, supponenza, sciocca convinzione che si debba esser lì, al Lido, per un dovere presuntamente culturale, attitudine da turisti della cultura, se non turisti della vita stessa, nella convinzione ulteriore certa che tutto ciò determini punteggio nell’ideale avviamento professionale della creatività diffusa, gli stessi che hanno altrettanta cura di iscriversi alla Scuola Holden nella convinzione che l’estro possa essere trasmesso via clistere didattico. Incancellabile, in questo senso, l’immagine di una solerte cretina, aspirante scrittrice, munita di cappello di paglia per ripararsi dalla calura lagunare, vista in fila anni addietro in un servizio che rendicontava l’afflusso del pubblico proprio davanti alla biglietteria a forma di chiosco del Lido, temo fosse lo stesso modello di cappello imposto alle comparse goffamente travestite da campesinos che appaiono ne L’assedio dell’Alcazar di Augusto Genina, instant-movie della cinematografia apologetica fascista con Fosco Giachetti e Maria Denis; il Giachetti, dopo una parentesi di condottiero eroico del tempo littorio contiguo al cinema melodico dei “telefoni bianchi” non meno di regime, avrà modo di far parodia di sé stesso in alamari ne Il mattatore al fianco di Gassman, interpretando il generale Mesci, gabbato dal sòla Vittorio. Oh, immenso godimento, se non orgoglio suprematista, per me stesso nel rivedermi ora a casa sul divano durante la controra, il kimono a testimonianza della doverosa alterità dall’ossessione per ogni forma di possibile consumo culturale indotto, clisteri del sublime filmico. Semmai un giorno mi fosse davvero richiesto di patire davvero il supplizio, la garrota cinematografica veneziana, pretenderei unicamente una stanza d’alberghetto, forse anche semplice pensione o foresteria, dal cui balcone osservare e prendere nota visiva, magari con il cellulare, in ossequio alla “camera-stylo” teorizzata da Alexandre Astruc, pioniere della Nouvelle Vague, dei forzati volontari, proscritti del festival lì presenti nella acefala convinzione che tutto ciò consegni loro la Patente Z di consumatore culturale esistente in vita. I semplici ritengono che la sostanza politica ultima del Situazionismo sia il critico laureato che commenta, metti, un film di Godard o L’ultima neve di primavera con il piccolo Renato Cestiè. Che stupidi! Spiega invece un saggio intitolato Della miseria del mondo studentesco, apparso nel 1966 all’Università di Strasburgo, due anni prima della rivolta del Sessantotto, che Situazionismo è semmai chi sogni di prendere a calci nel culo sia l’esegeta dei film di Godard sia il compianto Godard stesso. Tristemente, i baretti e le stuzzicherie del Lido di Venezia battono la vera nozione del Situazionismo 1 a 0. L’Oscar morale, alla fine di tutto, spetta allora al messicano Los cachorros. Nel pene evirato del ragazzino brilla ogni coscienza del limite e del risibile.