Gli americani sono degli artisti del “duck and cover” tradotto da noi con “stai basso e copriti”, regola tacita per ogni figlio dell’atomica, per i paranoici da Guerra fredda e chiunque sia stato bambino nel secondo Dopoguerra. Dopo le polemiche di due anni fa e il boicottaggio di molti attori, i Golden Globe si sono dovuti ridimensionare - in parte - alla filosofia del capitalismo Woke e per riprendere il loro vetusto posto nella stagione dei premi (tra gli Emmy e gli Oscar). Eppure, ieri, nonostante la scelta last-minute (e si vede) del comico Jo Koi (chi è?) la sala dei Golden, tra un magnum di Moet & Chandon e l’altro, ha ripreso il ginepraio di stelle danzanti da un tavolo all’altro: non mancava nessuno se escludiamo Ricky Gervais e Woody Harrelson. Insomma, “stai basso e copriti”, presenzia ma nasconditi tra le luci soffici, tra uno Spielberg e uno Scorsese di turno che parlano davanti al tavolo di quest’ultimo; o dietro due che hanno sussurrato tutto il tempo come Taylor Swift e Selena Gomez nella solita logica ipocrita hollywoodiana di: “Lo so, abbiamo fatto un gran casino gli anni scorsi e ora fingiamo sia tutto a posto”.
Vorrei dire che è per questa morale fintamente introiettata che è stata una nottata sottotono, ma credo che buona parte della colpa ce l’abbia Koi stesso che a ogni battutaccia scadente se la prendeva con gli autori: dalle frecciatine sulle dimensioni notevole del pene di Barry Keoghan (candidato per Saltburn), alle tette di Barbie, alla lunghezza di Oppenheimer fino al colonialismo civile bianco dell’ultimo film di Scorsese, non ha funzionato nulla. Da sempre i Golden sono preferiti agli Oscar perché inglobano non solo gli amanti della Tv, ma può capitare di vedere un Jon Hamm ubriaco, un Timothée Chalamet che riempie di baci la neofidanzata Kylie Jenner (finalmente usciti allo scoperto), donando al pubblico da casa un quadro più realistico e meno patinato della celebrità; eppure, ieri, sembrava una corsa all’olocausto nucleare in quella che è stata, a tutti gli effetti, una cerimonia a velocità 2x e bulimica. Tutti, se escludiamo Robert Downey Jr (vincitore del premio come miglior attore non protagonista per Oppenheimer) e un paio di altri, hanno ringraziato il fu e criticatissimo Hollywood Foreign Press Association (Hfpa). È come se dopo il ’45 in Germania gli Alleati avessero usato la Sieg Heil per salutarsi! La Hfpa fu accusata di pregiudizio razziale (non c’era nessun membro nero), mancanza di inclusività e impegno a migliorare le cose tanto che la Nbc non trasmise i Golden dopo quasi un quarto di secolo che ospitava l’evento. Ora, l’organizzazione, ripulita e ampliata, si chiama Golden Globes Journalists, e i diritti di trasmissione sono stati comprati da Paramount plus mentre la cerimonia, in Italia e non solo, era visibile dal sito della Cbs. “Un altro segno”, per citare sempre Il gattopardo, che se vogliamo che tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi, e gli stessi attori che protestavano ieri stanno, pian piano, tornano all’ovile non ricordandosi neanche chi fosse il nemico.
Da una parte abbiamo una meritata (una delle poche cose che merita Maestro di Bradley Cooper è l’interpretazione di Carey Mulligan) vittoria di Lily Gladstone (The Killers of the flower moon) e il suo discorso di ringraziamento (Miglior attrice protagonista) inizia con la lingua dei Piedi neri; prima donna indigena a vincere un Golden e, al contempo, il pregevole film di Martin Scorsese non ha vinto altro, ignorando un capitolo di Storia dove, per l’ennesima volta, l’uomo bianco si macchia di appropriazione indebita. Allora meglio premiare Oppenheimer, altrettanto meritevole, per raccontare - ancora - un pezzo di storia americana e mondiale, dove tutti sono colpevoli di avere le mani sporche di sangue, tranne il geniale protagonista che, etica a parte, ha messo il chiodo alla bara della Seconda Guerra. Barbie, che con Oppenheimer aveva alimentato mesi di fastidiosi fandom e meme sul Barbienheimer, è l’altra grande sconfitta della critica finto progressista aggiudicandosi due premi, uno come miglior blockbuster - ognuno ci veda una accezione negativa o meno -. Ma tra i grandi sconfitti perché esclusi, se vogliamo parlare di femminismo, è l’ultima incredibile stagione di The Marvelous Mrs. Maisel (solo Rachel Brosnahan candidata) dove solo per l’improvvisazione di quattro minuti nell’episodio finale valeva tutti i premi possibili e avrebbe donato un senso concreto a un’altra nuova categoria: miglior stand-up special, andato al discusso e divisivo (mai quanto lo spettacolo di Dave Chappelle) Armageddon di Ricky Gervais.
Quella di quest’anno è stata l’edizione dell’incubatrice emotiva (Elizabeth Debicki per aver riportato Diana nella serie The Crown); degli approdi sicuri (Succession), dei regali ai cinefili (la vittoria di Miyazaki, Lanthimos ed Emma Stone), degli hipster fuori tempo massimo con quei prodotti che ti devono piacere per forza (The Bear che non doveva stare nella sezione Comedy, e l’hype inspiegabile per Anatomia di una caduta); di qualche pat- pat sulla testa per gli attivisti da social (un premio al remake de Il colore viola, Lily Gladstone o i tre alla miniserie Beef). Una edizione da personaggio Npc, da sfondo, senza personalità.Insomma, per dirla con Johnny Rotten: “Hai mai avuto la sensazione di essere stato ingannato?”. In attesa di vedere a marzo se verranno ripresi i toni da baccanale agli Oscar potremo dire che questi due anni non sono serviti, forse, a niente o, per citare un grande film di un regista non grato nel paese delle bugie hollywoodiane: "Lascia perdere Jack, è Chinatown”.