Cento volte Antonio Albanese, piuttosto dell’ultimo polpettone di Ridley Scott su Napoleone. Cento volte “Cento domeniche”, un film sulla vita vera, anziché una brodaglia kolossal fuori sincrono, fuori luogo, fuori da ogni realtà storica, palesemente inutile, onanismo di un regista che non ha più niente da dire (l’unico che si salva è Joaquin Phoenix, sia gloria a lui). Cento, mille, mille mila volte una inconsueta ora e mezza di racconto di una normalità diventata così anormale, al cinema e nella fabbrica seriale di immagini dove un operaio non lo si vede più neanche con il binocolo e invece qui è protagonista. Senza retorica, però. Senza fraintendere il significato di normale, che non vuol dire, alla Vannacci, “tradizionale”, passatista, nostalgico o fesserie del genere. Vuol dire semplice, vuol dire ancorato alle condizioni reali dell’esistenza. L’esistenza di oggi, non di un domani idealizzato o di un futuro artificiale. Questa pellicola appena uscita nelle sale, molto morale ma non moralista, è un po’ il rovescio di Cetto La Qualunque e soprattutto di Perego, altra maschera con cui Albanese aveva reso la cupezza interiore del self made man lùmbard. Un’opera seria, come serio è il vero attor comico. Per la verità, dal punto di vista strettamente cinematografico non sarebbe poi questo che, se i cineasti italiani non avessero smesso di occuparsi di quello che è chiamato, con laida astrattezza, il “sociale”. Si staglia per smarcamento, differenziandosi dal sapore dolciastro di certi drammoni che, ogni tanto, provano a calarsi nel tragico quotidiano. Ha una sua grazia pacata, specialmente nella prima parte dove vediamo srotolarsi il tranquillo passar dei giorni di Antonio, tornitore in pensione ma ancora in fabbrica a insegnare alle nuove leve in cambio non di denaro, giammai, solo di contropartite in natura (ortaggi e polli, ai quali sovrintende nella casa del sciur padrùn, classica figura ambigua di “brava persona”). Padre separato in simpatica tresca con moglie altrui, e soprattutto impegnato ad accudire la madre, che non ci sente più dall’apparato auricolare (ma ci sente benissimo da quello cardiaco) e a realizzare il sogno di una vita: pagare le spese di matrimonio alla figlia, finalmente in sposa al suo promesso. Come si faceva ai suoi tempi. Una persona comunissima, che gioca a bocce con gli amici, disponibile, sorridente, e ingenuo. Un’ingenuità comune, stra-comune anch’essa, che pagherà cara: fidandosi della sua banca, della banca del paese, della banca di tutti, del territorio, finirà con il culo per terra. Risparmi evaporati d’amblé, per colpa del meccanismo infernale del credito che, come ormai è risaputo, si fonda sul debito. Solo che a restare con il cerino in mano sono sempre gli stessi: il parco buoi di chi i debiti tende a non farli, cioè di chi vive del proprio lavoro e non è esperto di azioni, di contratti, di investimenti. Il fesso designato del sistema. L’Antonio che ci crede ancora e considera ovvia la lealtà di una stretta di mano. L’Antonio che fra noi resiste, nonostante il cinismo insinuatosi in ogni piega e anfratto di questa società che ha sempre in bocca i “valori” perché non li pratica più, non sa nemmeno più cosa siano.
L’importanza di questo piccolo, delicato film sta nella sua inattualità estremamente attuale. E urgentissima. Parla di fatti realmente accaduti, del crac di istituti cooperativi (come le banche popolari venete) in cui il risparmiatore è stato abilmente condotto al macello per le ambizioni di amministratori trascinati da rovinosi sogni di grandezza. Ma parla di un tipo umano oggi del tutto paradossale, e proprio per questo così vitale e così svillaneggiato al tempo stesso: il lavoratore pago della sua fatica, il cui rapporto con i quattrini è sanamente strumentale. Gli servono, cioè, per vivere e finanziarsi un po’ di felicità, non il contrario. Più in profondità, Albanese ritrae un uomo che ha il senso dell’onore. Onore è una parola vituperata o, se va bene, desueta. Richiama cose considerate alla stregua di anticaglie, come il codice cavalleresco, i duelli all’arma bianca o, addirittura, certi stereotipi mafiosi. Invece ha la medesima radice di onestà: è il senso di vergogna che viene, diretto e ineluttabile, dalla difesa della dignità, valore di tutti i valori. Nella seconda parte, il nostro Antonio saggerà tutto lo strazio di vedere la propria sfacciatamente vilipesa dai raggiri della banchetta, rivelatasi longa manus della dinamica speculativa: depreda più che puoi e finché puoi, e se il giochino salta, scappa in tempo con la cassa. Tanto, sono soldi di quei pirla che hanno avuto fiducia, che hanno dato credito perché incapaci di concepire truffe di fatto legalizzate (in questi casi, il confine con la legalità è sempre labile, e comunque i furbi al comando, lorsignori che maneggiano i salvadanai altrui, raramente trovano il giudice che si meriterebbero, per il semplice motivo che un giudice, a Berlino, non si trova quasi mai). Non vi spoileriamo il finale. Ci interessa più farvi venir voglia, magari, di identificarvi nell’Antonio di questo controcorrente Albanese stile Ken Loach, che perde il sonno, la serenità, e infine anche la brocca per troppa integrità. Ma può essere davvero troppa, la dedizione istintiva al rispetto di sé e a un minimo di giustizia? Quale dovrebbe essere la famosa norma sanzionatrice: è la firma in fondo alla stipula, che poi costringe a passare nei gironi semi-eterni dei tribunali per farsi risarcire, o è la fedeltà alla parola data, la fiducia spontanea quanto sacra, l’attaccamento al proprio (banale) dovere? È più normale un direttore di filiale che fa firmare frodi con il sorriso (“siete peggio che criminali: siete complici, vigliacchi!”, urla Antonio in una scena), o il dipendente che esegue per paura di ritorsioni, e viene pure lui indotto a partecipare alla giostra, finendo col rimetterci del suo? È più normale il cliente che avrebbe dovuto saper “diversificare”, come si dice in gergo e come gli rimproverano a posteriori gli amici, fra i quali scatta la solidarietà proletaria (ma sì, usiamolo questo arcaismo che sa di lotta), o quello che non sa bene che pesci pigliare, a cui manca la malizia - ahinoi indispensabile - e che si fa abbindolare anche grazie alla stampa, sempre prona e serva al potere in sella? E cos’è normale, un povero diavolo che si sente isolato in un mare di pescecani, o chi ha capito come funziona il casinò dove a vincere è sempre il banco, e si adegua, si adatta, aderisce e si tramuta nel’antitesi umana di Antonio, in un homo homini lupus della porta accanto, in Perego, in Cetto, nella bestia da auto-indebitamento e investimento azionario, in un mostro letteralmente da quattro soldi, ma pur sempre mostro? Ecco, il bello e il virtuoso di Cento domeniche è che mostra, per una volta, non quale è la normalità sugli altari oggi, ma quale dovrebbe essere - e ancora è, carsicamente, nel sostrato popolare - la normalità di ogni tempo. Non come non si dovrebbe essere, ma come si dovrebbe. Dà una lezione di vita. Chiù Albanese pe’ tutti.