Abbiamo un po’ tutti, grazie o per colpa dei social, assistito a una incredibile gara di antipatia tra due delle più importanti schermitrici italiane, Valentina Vezzali ed Elisa Di Francisca. Entrambe jesine, come anche Roberto Mancini, fortunatamente, so che sembra incredibile, ma Jesi ha dato i natali anche a gente che non brucia l’aria con la propria antipatia. Entrambe parte di quella scuola di scherma marchigiana che così tante medaglie ha portato alla nostra nazione, l’una classe 1974, un passato nella politica, sotto il governo Draghi, l’altra classe 1982, vincitrice di Ballando con le stelle nel 2013, sono tanto famose per le proprie imprese atletiche, campionesse mondiali e olimpiche, quanto tristemente note per certe uscite pubbliche non esattamente gradevoli. Noto è per dire il bullismo esercitato dalla Di Francisca nei confronti della giovanissima nuotatrice Benedetta Pilato, alle recenti Olimpiadi di Parigi, rea di non aver vinto una fava ai suoi occhi di campionessa boomer.
Quel che però abbiamo visto in queste ore, impossibilitati a non vederlo in questa dittatura dei reel che è ormai diventato il nostro stare sui social, è uno scambio di battute tra le due, ignoro in che occasione, direi irrilevante ai fini della narrazione, che ha visto la Di Francisca proporre una pace o tregua, seppur fittizia, alla Vezzali, sentendosi per contro rispondere un sovietico “niet”, perché come campionessa è indiscutibile, ma come essere umano, stando alla più anziana schermitrice, ha molto su cui lavorare.
Un siparietto ad alto tasso di urticamento, perché, se possibile, la Vezzali ha superato in volata la Di Francisca, e col dire questo dico molto. Ma soprattutto perché sembra vanificare tutte quelle menate su come lo sport sia qualcosa di più di gente che si dimena per vincere gare o partite, quanto piuttosto una sorta di filosofia di vita, di insegnamento atavico che spesso ruota intorno al concetto di fatica e lavoro che ti permette di superare i tuoi e gli altrui limiti, roba che mi ha sempre lasciato piuttosto scettico, e che finalmente trova in due campionesse acclarate la propria conferma.
Lo sport non insegna, è chiaro, parola di due campionesse olimpiche e mondiali, a essere persone migliori. Non irradia valori. E soprattutto quest’epica della fatica come motore del mondo, spesso contrapposta al talento duro e puro, in alcuni casi anche in assenza di esso, è qualcosa di stucchevole. Faticare stanca, parafrasando Pavese, e faticare tanto per è qualcosa di deplorevole, perdita di tempo. Del resto, anche l’amicizia, a dirla tutta, è spesso sopravvalutata. O almeno l’idea che ci si debba ritrovare come amici persone che di loro ci stanno sul cazzo solo perché condividono con noi il medesimo ambiente di lavoro. Cioè, intendiamoci, è chiaro che intanto nell’infanzia e nell’adolescenza si fanno amicizie frequentando la scuola, tanto può capitare da adulti di farne nel posto di lavoro.
È lì, metaforicamente o fisicamente, che passiamo buona parte della nostra vita, dove mai dovremmo farla in coda alle poste? Ma di qui a dar per assodato che essere parte dello stesso ambiente equivalga, in qualche modo, a essere amici è una sciocchezza sesquipedale, e uso la parola sesquipedale solo per distinguermi da chi in teoria opera nel mio stesso settore avendo però a disposizione un vocabolario decisamente più povero del mio. Che poi la parola sesquipedale rende perfettamente l’idea di qualcosa di estremamente e inutilmente lungo, dodici lettere anche per una lingua complessa come la nostra, a differenza, che so? Di una parola come brachilogicamente, che a dispetto del suo mettere in campo diciassette lettere vuole in realtà dire “in breve”. Un controsenso, dire “in breve” usando un’unica parola assai più lunga di “in breve”, sette lettere, otto spazi, guardando un documento word, controsenso con cui ho incrociato la strada ormai una vita fa, dentro le pagine di un libro di don Giussani, fondatore di Cl, aka Comunione e Liberazione.
Lui, don Giussani, diceva brachilogicamente per dire in breve, rifacendosi ai suoi studi classici, e anche per quella volontà tutta sua di rendere le sue parole incomprensibili senza l’aiuto consolatorio di qualcuno che le spiegasse, quelle parole erano scritte su libri che venivano letti insieme a Scuola di comunità, parlo dei tempi in cui ho frequentato Gs, aka Gioventù Studentesca, la branca ciellina delle superiori, scuola di comunità dove c’era un adulto che ti aiutava a capire, accompagnandoti.
Una modalità curiosa, parlare strano, o comunque difficile, così da dover poi ricorrere a figure terze per spiegare quel che si sarebbe potuto dire più semplicemente, modalità che qualcuno potrebbe pensare ho a mia volta adottato con questo mio modo di scrivere così strano, arzigogolato, pieno di digressioni, divagazioni, citazioni incomprensibili, relative su relative. Ipotesi non implausibile, vallo a sapere, c’è chi pensa che invece tutto ciò affondi le radici in una mia non diagnosticata forma di Dsa, aka disturbi specifici dell’apprendimento, leggi alla voce dislessia, discalculia, disortografia. Da non confondere con l’altra Dsa, il disturbo dello spettro autistico.
Ricordo che quando ho visto Atypical, serie tv che ha un ragazzino autistico come protagonista, ragazzino autistico molto in fissa con i pinguini (lo dico giusto per smorzare la pesantezza di questo passaggio) sono rimasto inizialmente sconcertato da questo parlare di autismo usando l’acronimo Dsa, perché pensavo che chi ha i disturbi specifici dell’apprendimento ha già abbastanza cazzi da gestire di suo dal dover specificare che no, non è anche autistico, e del resto ho sempre trovato che lo stigma che si ha nei confronti dei disturbi del neuro-sviluppo sia quantomeno accompagnato da una grande dose di ignoranza, oltre che di volgarità (dare del dislessico a qualcuno perché magari si impappina mentre parla è un po’ il corrispettivo aggiornato del dare del mongoloide a chicchessia, come avveniva con troppa leggerezza negli anni in cui io ero un ragazzino, dove c’era chi ricorreva anche a giri di parole quali “Meriti il Mongolino d’oro”). Non so e avendo cinquantacinque anni non mi interessa sapere se in effetti ho i Dsa, stando a come scrivo, e quindi come ragiono, presumo sia possibile.
E presumo anche, ma questa è la mia visione del mondo, e dubito di poterla riassumere qui in poche parole, che ricondurre l’apprendimento a mere regole e percorsi cui sottomettersi, a prescindere dai metodi alternativi che alcuni troverebbe decisamente più naturali, attesti semplicemente la grande arretratezza della nostra istruzione, dove chi ha i Dsa è costretto comunque a percorrere i medesimi passi, semmai supportato da tutta una serie di apparati, ma mai che gli si lasci fare le cose a modo proprio.
Come del resto, in età adulta, ho preso a fare io, talmente a modo mio da poter esibire un passato all’interno di Comunione e Liberazione senza il minimo rischio, o quantomeno senza la minia paura, che qualcuno possa usare questo mio background per criticarmi. Vivo in Lombardia e Comunione e Liberazione è legata a doppio filo al taglio violento della sanità, leggi alla voce Roberto Formigoni, e più in generale viviamo in un’epoca e forse in una società dove dirsi cattolici non è considerato molto alla moda, se non addirittura è a sua volta oggetto di uno stigma simile a quello dei Dsa. Vuoi per l’averci messo su il cappello da parte della destra, quella indebitamente titolari della trilogia Dio, Patria e Famiglia, tolta la Patria, anzi, la patria, di cui mi frega davvero niente, direi che Dio e Famiglia vengano davvero usati indebitamente da gente senza Dio e decisamente portato insani di un’idea di famiglia tradizionale che poi non mettono affatto in pratica nella vita di tutti i giorni.
Credo in Dio, frequento la chiesa, pur con delle perplessità su parecchi punti del suo operato, e sono titolare di una famiglia tradizionale, marito, moglie e quattro figli, tutti con i medesimi genitori, ciò detto venitemi a dare del ciellino e scatto di testa mirando al setto nasale, pur non escludendo che forse scrivo così perché ho letto da giovane don Giussani, forse perché senza averne riscontro scientifico sono dislessico. Tornando a parlare dello scontro tra Elisa Di Francisca e Valentina Vezzali, provo a guardare alle parole espresse con una tale carica di simpatia dalla simpaticissima Vezzali. Il fatto che chi è in grado di compiere azioni o produrre opere degne di nota debba necessariamente essere una bella persona è stato nel tempo smentito dalla stragrande maggioranza di chi in genere compie azioni o produce opere degne di nota, confondere gli uni con le altre è operazione troppo superficiale per meritare ancora una singola altra parola. Doverlo specificare come ha fatto la Vezzali, che ha premesso i meriti alle colpe, parlo del suo pensiero, io non vedo né meriti né colpe, ho frequentato Cl ma sono tendenzialmente laico, è una sorta di gesto diplomatico e come tale va preso. Un modo per aggiungere un arbasiniano “signora mia” a un bel “vaffanculo”, cifra che per altro è abbastanza caratteristica della mia terra di origine, pur non avendo io troppi punti di contatto con Jesi, ribadisco, dalle mie parti considerata parte di un generico entroterra cui guardare quasi con affettuoso e bonario spirito di sufficienza, cantando mentalmente le parole che Nino Ferrer ha a suo tempo vergato, Nino Ferrer mai sufficientemente celebrato in patria, “la civiltà è bella ma viva la campagna”.
Quello che è il focus di quel video, viralissimo, è quindi né più né meno che un dissing, in realtà l’epilogo o forse uno dei passaggi salienti per quell’essere avvenuto in epoca social e a favore di camera di tutta una serie di dissing, dove lo scontro sportivo si è spostato esclusivamente sul piano verbale, lo sport ormai archiviato per entrambe, laddove in passato si poteva equamente dividere dal lato pratico a quello emotivo. Un dissing, a dirla tutta, che ci mostra il solo lato umanamente interessante delle due protagoniste, per il resto non esattamente persone che chi scrive ambirebbe frequentare (aggiungere uno “sticazzi” a questo punto, lo so, ci starebbe perfettamente, ma qui sono io a scrivere e ovviamente il mio punto di vista pesa più di chi mai esclamasse lo sticazzi in questione).
Lo sport, come l’arte, è costellato di storie di antagonismi anche violentissimi. Esternati sul campo di gioco, reale o metaforico, quindi nel momento in cui lo sportivo o l’artista esercita il proprio essere sportivo e artista, e poi ovviamente tracimati anche fuori dal campo da gioco, reale o metaforico, a suon di punzecchiature, battute, provocazioni, veri e propri attacchi verbali. In alcuni casi, visualizzate mentalmente le facce tirate di Ibrahimovic e Lukaku che si guardano con odio durante un derby. Parte di quell’aneddotica che contribuisce a rendere la storia dello sport e della musica più interessante di quanto record o opere da sole potrebbero mai permettere. Al punto che a volte, adesso mi occupo solo del mio ambiente, la musica, parte di quell’aneddotica è totalmente inventata, costruita con grande sfoggio d’arte da parte di chi di mestiere alimenta il fuoco dell’attenzione, crea strategie, muove l’attenzione. Cosa sarebbe mai stato, per dire, il rock’n’roll della seconda parte degli anni Sessanta se non ci fosse stato il dualismo Beatles vs Rolling Stones, o gli anni Ottanta senza il clash of titans tra Duran Duran e Spandau Ballet, o a seguire Blur vs Oasis, 2Pac vs Biggie, Cindy Lauper vs Madonna, Britney Spears vs Christina Aguilera, non fatemi vi prego andare avanti. Scontri che spesso hanno richiamato nel linguaggio come nelle modalità proprio quelli sportivi, dei grandi campioni, ma che hanno dato poi sfogo a tutte quegli accorgimenti che un buon dissing prevede, passare dal fioretto alla sciabola, a volte anche alla katana, per restare in tema della Di Francisca e della Vezzali.
Ecco, tutto questo mi sembra sia completamente uscito di scena nel nostro panorama musicale. Non parlo certe dei fake dissing come quelli che abbiamo visto negli ultimi tempi, Luché vs Salmo l’anno scorso, Fedez vs Tony Effe quest’anno, roba che puzza di concordato lontano un miglio, l’ombra lunga della RedBull sullo sfondo, mica per caso il tutto ha portato sempre ai loro eventi, parlo di dissidi, usiamo l’italiano, veri. Discorso diverso quello che riguarda personaggi come Rondodasosa, Simba La Rue e Baby Gang, in questo momento impegnati in una partita di giro di minacce e vaffanculi degne di un film di gangster, lì di arte ce n’è ben poca e la faccenda si sviluppa tutta sul puro piano della violenza, verbale e non, sarà mica un caso che di tutti si è occupata e si continua a occupare la giustizia più che la critica.
Quelli che rimpiango sono gli scazzi tra dive, come quelli di un tempo tra Mina e Iva Zanicchi o Milva, per dire, quella più spostata sul fronte delle fandom tra Vasco e Ligabue, quello tra le giovani Loredana Bertè e Donatella Rettore. Oggi va di moda fare i featuring, tecnica molto spessa adoperata per mettere insieme pubblici differenti, al grido di “l’unione fa la forza”. Quindi, un po’ come succede per quel silenzio assordante che quasi sempre accompagna le grandi tematiche sociali e planetarie, anche rispetto al microcosmo della musica nessuno prende posizione, e tutti sembrano amici di tutti. Amicizie finte come i rari dissing, dove a dirla tutta l’unico a dispensare e prendere vaffanculo finisco spesso per essere proprio io, reo di scarsa diplomazia o addirittura di amichettismo. Se una speranza di tornare a respirare un po’ di quella frizzantina aria di scazzo la possiamo ancora nutrire, e Dio solo sa quanto sarebbe necessario un po’ di politicamente scorretto oggi, in un’epoca così anomala come questo, capace di così tanta violenza e al tempo stesso di così tante autocensure, risiede tutta nel legame di sangue, fraterno, tra Noel e Liam Gallagher, pronti a tornare in scena sotto il marchio Oasis, il loro tour mondiale è al momento quello che ha generato più economie negli ultimi tempi, Taylor Swift permettendo. Magari che non rovinino tutto prima di iniziare, intendiamoci, ma almeno qualche schiaffone sul palco speriamo che ce lo regalino. Elemosinare gli scazzi alla Vezzali, converrete, non è poi così esaltante.